Giganti dell’economia in pesante crisi

by Claudia

Stati Uniti, Cina, Germania e Giappone non navigano in buone acque, quali conseguenze dobbiamo aspettarci?

L’America torna a temere una recessione. La Cina è ormai in una fase che alcuni economisti definiscono di «stagnazione secolare». La Germania non si è ancora ripresa dallo shock arrivato con la fine di ingredienti-chiave del suo secondo miracolo economico, cioè «gas russo a buon mercato e mercato cinese spalancato». Il Giappone è destabilizzato da un esperimento di yen forte. L’economia globale si scopre orfana di quattro giganti che in passato avevano svolto, a vario titolo e in forme diverse, il ruolo di locomotive trainanti anche per la crescita di tutti gli altri. Il male tedesco è quello che preoccupa di più l’Europa. Ma l’America e la Cina hanno maggiori ripercussioni sul mondo intero.

Se si ferma la locomotiva americana sono guai per tutti. È lo scenario che spiega le pesanti cadute delle Borse mondiali che per un paio di sedute all’inizio di agosto hanno fatto temere un’ondata di panico e un crac. Quell’allarme sembra essere rientrato, i crolli sono durati poco. Avevano una spiegazione «tecnica», grossi investitori avevano accumulato debiti in yen – moneta a basso rendimento – per investirli altrove, e quando hanno sentito girare il vento hanno dovuto smobilitare in fretta le loro posizioni. Ma a far cambiare il vento erano stati alcuni dati deludenti sull’economia Usa. Di una recessione americana in arrivo si parla da tre anni, e finora le previsioni degli economisti non si erano avverate. Sia pure con grande ritardo, i segnali di debolezza si sono materializzati sul mercato del lavoro più dinamico del mondo. Luglio ha avuto una creazione netta di posti di lavoro dimezzata rispetto ai mesi precedenti. I salari crescono meno di prima, con un aumento annuo del 3,6% sono di poco superiori all’inflazione. Marche di beni di consumo e grande distribuzione segnalano un rallentamento della spesa delle famiglie. La quota di risparmi sul reddito è scesa. Siamo dunque giunti alla fine di un «boom keynesiano», segnato dall’impatto dei cinque trilioni (cinquemila miliardi) distribuiti forse troppo generosamente durante la pandemia dalle due Amministrazioni Trump-Biden. I segni di quella fase sono ancora ben visibili nelle finanze federali, con un rapporto deficit/Pil che si sta avvicinando al 7% e un peso del debito pubblico sul Pil che a seconda delle misurazioni vale il 100% o il 120%. Almeno una parte della recente crescita americana era stata drogata dalla spesa pubblica.

Un altro fattore specifico dietro la breve caduta delle Borse è il ridimensionamento di Big Tech. La corsa ai titoli tecnologici aveva creato una bolla speculativa, questa era un’opinione diffusa già da molti mesi se non da anni. L’ultima ragione per prolungare l’euforia era venuta dall’innamoramento collettivo per l’intelligenza artificiale. Che le potenzialità dell’AI (Artificial Intelligence) siano enormi, è un conto. Che giustifichino certe valutazioni stratosferiche di società quotate in Borsa, è tutt’altro discorso. Uno dei più grandi fondi d’investimento americani, Elliott, ha messo in guardia i suoi clienti sugli eccessi speculativi legati all’AI, che fra l’altro hanno spinto la quotazione di Borsa di un’azienda come Nvidia, produttrice di microchip proprio per l’AI. L’analisi di Elliott contiene questo avvertimento: può darsi che l’AI si riveli una straordinaria rivoluzione tecnologica, ma per il momento non è chiaro come sia in grado di generare reddito, quindi chi ci guadagni. La Silicon Valley è sempre vissuta di questi cicli di «boom and bust». La crisi di fiducia sui benefici immediati dell’AI è una storia a sé, ora viene a coincidere coi timori più generali su una recessione americana, o comunque un forte rallentamento della crescita Usa.

Sono cominciate le polemiche sulle responsabilità della Federal Reserve, la banca centrale americana. La sua terapia anti-inflazione, con prolungati rialzi dei tassi d’interesse nel dopo-pandemia, è stata troppo drastica? È durata più del necessario? Si discuterà a lungo se abbia sbagliato a non allentare più presto la stretta creditizia, altro fattore di freno ai consumi e agli investimenti. Questo dibattito è complicato dalla scadenza elettorale. Una recessione guasterebbe le possibilità di vittoria di Kamala Harris? Da parte sua Donald Trump ha spesso esortato la Fed a tagliare i tassi, ha perfino auspicato una svalutazione del dollaro per migliorare la competitività dell’industria americana e aiutare le esportazioni.

In quanto alla seconda economia mondiale, la Cina, da tempo esporta i suoi problemi in casa nostra. I consumi sono fiacchi, ne soffre anche il lusso italo-francese, che un tempo trovava una domanda inesauribile su quel mercato. La nuova generazione, già afflitta da un’alta disoccupazione intellettuale, scopre che la sua età pensionabile dovrà slittare sempre più avanti. Come ha osservato un giovane cinese sul più diffuso social media nazionale: «Siamo nati in un’epoca in cui si diceva ancora che eravamo troppi. Ora che siamo adulti si dice che i bambini sono troppo pochi. Sul mercato del lavoro ci considerano già vecchi. Per avere una pensione non lo saremo mai abbastanza». Traspare allarme per lo stato della finanza locale. Qualche provincia o municipalità rischia la bancarotta per la crisi del settore immobiliare. La fonte di finanziamento per gli enti locali sono le vendite di terreni pubblici e la concessione di licenze edili: tutto fermo. Eppure l’obiettivo programmato dal Terzo Plenum del partito comunista, concluso di recente, è raddoppiare il reddito dei cinesi entro la fine del 2029, in anticipo rispetto al traguardo fissato in precedenza, che era il 2035.

Per arrivarci la Cina dovrà fare affidamento ancor più di prima sulle esportazioni; e finanziare in modo abbondante l’innovazione tecnologica della sua industria. Oltre ai settori dove l’invasione cinese è una realtà da molti anni (pannelli solari, batterie e auto elettriche, acciaio, più tutti i prodotti tradizionali del tessile abbigliamento e calzaturiero) tra le priorità per la politica industriale ci saranno il biomedico e i macchinari. Il mondo ideale per Xi, sotto il profilo economico e tecnologico, è quello in cui tutti gli altri hanno bisogno di comprare cinese mentre la Repubblica popolare può fare a meno di prodotti stranieri. Vuole mettere noi occidentali, o mantenerci, in una situazione di massima dipendenza, e conquistare per sé un’autonomia quasi totale.

Preoccupa l’intera Europa la sovraccapacità industriale cinese, e la pressione che l’export esercita sui settori manifatturieri. Più l’America si chiude – non c’è ragione di pensare che una presidenza Harris o una presidenza Trump II sarebbero filo-cinesi – più l’Europa finirà sotto pressione. Anche il tema delle acquisizioni societarie è strategico. Poiché Xi vuole bruciare le tappe nel progresso tecnologico, spingerà le sue imprese a catturare le innovazioni comprando aziende che le producono. È un copione noto. Alcuni Paesi sono corsi ai ripari erigendo alte barriere anche in questo campo. In America, Regno Unito, Giappone, Corea del Sud, sta diventando quasi impossibile per i cinesi investire in aziende hi-tech. Resta l’Europa.

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