Libano, tra lacrime e sangue

La lotta fra Israele e Hezbollah, in pratica un confronto a distanza fra le potenze americana e iraniana, consacra una volta ancora il Libano come campo di battaglia. Un ruolo che il Paese dei cedri svolge ormai da mezzo secolo, con spaventosi tributi di vite e devastazioni. Eppure, prima di quel tragico 1975 che vide l’avvio della guerra civile, lo chiamavano la Svizzera del Medio Oriente per la prosperità economica e il ruolo di principale piazza finanziaria della regione. Era un Paese modello, arabo e multiconfessionale, nel quale attraverso un delicato meccanismo costituzionale i musulmani sunniti, sciiti e i drusi convivevano con i cristiani di varie confessioni fra i quali prevalevano i maroniti. In realtà quella pacifica coesistenza non poteva durare a lungo, minata com’era nel suo interno da troppe contraddizioni.

Infatti l’incanto si ruppe negli anni Settanta del secolo scorso, quando esplose un sanguinosissimo conflitto civile destinato a durare quindici anni, e a essere seguito da cruente fiammate di guerra. Bisogna considerare che nella frammentazione etnica e politica del Libano era emersa alla metà del secolo una componente nuova, quella dei rifugiati palestinesi che cercavano scampo dopo la fondazione in Palestina dello Stato di Israele e i confronti armati fra la nuova entità politica e i Paesi arabi che la circondavano. I primi centomila profughi arrivarono nel 1947, all’indomani della prima guerra arabo-israeliana, alla quale lo stesso Libano aveva partecipato soprattutto sul piano finanziario e logistico.

Cominciò dunque, con uno scontro fra falangisti cristiani e gruppi armati palestinesi, la lunga stagione del Paese dei cedri trasformato in terreno di scontro per le guerre degli altri. Tre anni più tardi l’esercito israeliano attraversava il confine e occupava la parte meridionale del Libano, le Nazioni unite decidevano l’invio di una forza di interposizione. Ma non servì a gran cosa, e nel 1982 Israele lanciò l’operazione Pace in Galilea, che portava nel nome il contenuto della sua missione: difendere lo Stato ebraico dalle incursioni delle forze irredentiste, allora coordinate dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat, nelle sue province settentrionali.

Stavolta le truppe israeliane si spinsero fino a Beirut. La situazione pareva ormai sfuggita a ogni controllo, Una forza multinazionale composta da reparti americani, italiani, francesi e britannici prese posizione in città. Mentre l’Olp trasferiva a Tunisi la sua dirigenza e i suoi reparti combattenti si rifugiavano nel nord, nel Paese dei cedri il sangue scorreva a fiumi. Due campi profughi palestinesi collocati fra i sobborghi meridionali della capitale, a Sabra e Chatila, furono presi d’assalto in una notte di settembre del 1982 dalle milizie falangiste, nell’indifferenza almeno iniziale delle forze israeliane d’occupazione che si stavano ritirando secondo gli accordi ma non fecero nulla per fermare la strage.

Due giorni prima il presidente libanese Bashir Gemayel era rimasto vittima di un attentato assieme a numerosi altri capi della Falange: sordi ai precetti evangelici, i reparti cristiani cercarono vendetta. Fu uno spietato massacro non ancora definito nelle sue dimensioni, le valutazioni oscillano infatti fra le sette-ottocento vittime e le 3500. Moltissimi fra gli uccisi i bambini, gli anziani, le donne. Sabra e Chatila si lasciarono alle spalle un’eredità straziante di dolore e di morte. Impossibile dimenticare la disperata desolazione di quei giorni, le donne palestinesi che cercavano piangendo i resti dei loro cari, che si aggrappavano ai soldati internazionali invitandoli a fare giustizia, almeno a verificare l’orrore di quella notte, a distribuire correttamente le responsabilità…

Poche settimane più tardi la forza italo-franco-anglo-americana, che al momento della strage aveva appena lasciato le sue basi a Beirut, fu nuovamente dispiegata nella capitale libanese ormai allo sbando. Ma fu colpita da Hezbollah con estrema durezza. Si aprì una stagione di spettacolari attentati. Fra il 1982 e il 1983 un’autobomba all’ambasciata americana di Beirut provocò la morte di 63 persone e un attacco suicida alla caserma dei marines ne uccise 241. Colpito anche il contingente francese: 56 paras vittime di un altro attentato suicida. Nel marzo 1984 ebbe termine la missione internazionale di pace. Ma questo non significa che la pace sia da quelle parti un dato acquisito, nonostante il contingente United Nations Interim Force in Lebanon (Unifil) dispiegato dall’Onu in quello che è ormai da tempo cosiderato il territorio meno sicuro del mondo.

Il rafforzamento di Hezbollah, che dispone di un esercito modernamente attrezzato a cura degli alleati iraniani, e l’attenzione israeliana alla sicurezza delle province della Galilea confinanti con il Libano, hanno reso quell’angolo di mondo uno dei più infiammabili focolai di guerra. Nel 2006 le forze israeliane hanno di nuovo attraversato quel confine. Ne sono seguiti trentaquattro giorni di combattimenti conclusi da una tregua che come tutte le tregue concordate da quelle parti ha lasciato insoluti i problemi. A cominciare dal primo: la questione palestinese, vero e proprio elemento di squilibrio sul quale «giocano» i Paesi dell’area e le grandi potenze per ricavarne vantaggi strategici.

Si è arrivati così a questa turbolenta vigilia di guerra seguita all’attacco di Hamas dello scorso ottobre, alla feroce vendetta israeliana con i massacri di Gaza, all’esecuzione del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh, allo scambio di accuse e minacce fra Gerusalemme e Teheran. Invano la Falange libanese invita Hezbollah a moderare i toni, chiarendo che «questa non è la nostra guerra». Certamente non è la loro guerra, così come non lo furono i conflitti seguiti alla lotta intestina libanese: ma è difficile immaginare dove altro potrebbe essere combattuta. E così per il Paese dei cedri, che fu la Svizzera del Medio Oriente, si è avviata un’altra stagione di lacrime e sangue.

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