Alla fine di giugno, il massimo responsabile Onu per gli aiuti umanitari ha rassegnato le dimissioni per motivi di salute. Prima di abbandonare il suo incarico, il sottosegretario generale Martin Griffiths, britannico, ha lanciato un allarme terribile. In Sudan, ha detto in un’intervista a «The Guardian» di Londra, si prepara una catastrofe «al di là di ogni immaginazione». Qualcosa di infinitamente più grave dell’emergenza umanitaria in corso a Gaza. Nel territorio palestinese, ha spiegato Griffiths, mezzo milione di persone dovrà affrontare di qui alla fine dell’anno la più grave minaccia alimentare. È la cosiddetta «fase 5», secondo una rigorosa definizione internazionalmente accettata, che consiste in «estrema mancanza di cibo, fame ed esaurimento della capacità di farvi fronte». Nella stessa «fase 5» si trovano attualmente in Sudan quasi 800mila persone. E altri 8 milioni e mezzo di sudanesi si trovano in «fase 4», cioè «altissimi livelli di malnutrizione acuta e di malattia, con rischio di morte per fame in rapida crescita».
Sono numeri di cui il mondo, da alcune generazioni, non ha memoria. La carestia etiopica di metà anni 80 causò, secondo le stime Onu, un milione di morti. Ci sono tutte le premesse perché questa cifra venga superata nei prossimi mesi in Sudan. Per questo Griffiths ha affermato che ci troviamo «davanti a un grave momento storico». La grande differenza con Gaza, e anche con la tragedia etiopica di quarant’anni fa, è l’esposizione mediatica e l’attenzione internazionale. Il Sudan è ignorato tanto dai riflettori giornalistici quanto dai governi e dalle diplomazie. Solo nelle ultime settimane di luglio gli Stati Uniti hanno annunciato una loro iniziativa, per la verità molto tardiva.
Non mancano le voci autorevoli e inascoltate che, come Griffiths, hanno lanciato l’allarme. Alex de Waal, direttore della World Peace Foundation, specialista del Sudan, tra i massimi esperti mondiali di carestie, ha usato pressoché le sue stesse parole. Da tempo le agenzie umanitarie Onu vanno mettendo in guardia contro la catastrofe in corso. Ma l’eco è minima e la sensazione dominante è quella di un disinteresse generale. Una conferenza dei Paesi donatori riunita mesi addietro in Svizzera ha raccolto fondi di gran lunga inferiori alle aspettative e alle necessità.
C’è un’altra differenza capitale da quanto accadde nel nord dell’Etiopia quattro decenni or sono. La carestia che dilaga oggi attraverso il Sudan non è figlia di una natura impazzita, o di circostanze impreviste e fatali, ma è causata esclusivamente dagli uomini. I nomi dei suoi responsabili sono noti. Al momento tuttavia sono loro ad avere in pugno la chiave che impedisce alle agenzie internazionali di intervenire. Sono perciò corteggiati e lusingati da quanti hanno finora tentato – senza risultati apprezzabili – di coinvolgerli in una trattativa. Si spera che l’iniziativa negoziale americana (un summit sul Sudan in Svizzera, nella regione di Ginevra, iniziato mercoledì 14 agosto) possa avere successo dove altri hanno fallito. Nell’attesa, possiamo soltanto ricordare le cause di questa tragedia.
Il regime islamico che venne abbattuto dalla rivolta popolare del 2019 a Khartoum aveva lasciato dietro di sé un inquietante dualismo. Accanto alle Forze armate, tradizionale pilastro del potere sudanese e roccaforte dell’Islam più conservatore, il dittatore deposto Omar al Bashir aveva consentito la creazione di un potente esercito privato, le cosiddette Forze di supporto rapido (Rsf nella sigla inglese), guidate da Mohamed Hamdan Dagalo. L’ascesa di Dagalo da oscuro figlio di cammellieri a potente e ricchissimo signore della guerra è una storia a sé. Fatto sta che per anni egli aveva garantito ad al Bashir il sostegno di una milizia personale forte di migliaia di uomini. Finché non lo tradì, alleandosi con il comandante in capo delle Forze armate, il generale Abdel Fattah al Burhan, e causandone la definitiva rovina.
Seguirono in Sudan anni di grande instabilità, causata dalla tensione fra le forze della società civile che avevano guidato la rivolta contro al Bashir – a loro volta profondamente divise tra loro – e coloro che detenevano il potere delle armi. Accordi raggiunti all’inizio del 2023 prevedevano l’integrazione delle Rsf nelle Forze armate governative. Fu a quel punto, nell’aprile dell’anno scorso, che Dagalo dette ai suoi uomini l’ordine di aprire il fuoco contro le truppe di al Burhan.
Sebbene la guerra ancora in corso dopo sedici mesi sia totalmente interna al Sudan, sarebbe un grave errore definirla una guerra civile. La società sudanese è vittima di entrambe le forze in campo. Sono due eserciti coinvolti in uno scontro devastante, senza esclusione di colpi, di cui l’intero Paese è teatro. La società è il campo di battaglia. Scoppiato da principio a Khartoum, metropoli con milioni di abitanti, il conflitto si è progressivamente esteso. Dapprima in Darfur, il vasto territorio occidentale del Sudan di cui Dagalo è originario e dove le sue milizie si sono inizialmente formate, in una guerra genocidaria contro le etnie non arabe che popolano quella regione. Poi al centro-sud, nel Kordofan; infine, più recentemente, all’est.
Non c’è crimine di guerra che sia stato risparmiato ai civili, sui quali miliziani delle Forze di supporto rapido e soldati governativi si abbattono saccheggiando, violentando e uccidendo. Le testimonianze riferiscono che è diffusa la pratica di offrire cibo in cambio di sesso alla popolazione affamata, di cui sono vittime sistematiche le bambine. Gli ospedali sono stati tra i primi obiettivi a essere colpiti, azzerando di fatto la già precaria sanità sudanese. I profughi nei Paesi confinanti e gli sfollati interni superano gli otto milioni, in pratica un sudanese ogni cinque. I morti sono decine di migliaia. Un incubo universale, nel quale i veti incrociati dei due campi impediscono alle agenzie umanitarie di intervenire, prendendone di mira gli operatori. I campi profughi sono abbandonati alla sorte. La fame è diventata la principale arma di guerra.
Oltre ai rappresentanti di Washington e Riad, in Svizzera per il summit sono arrivati Egitto, Unione Africana, Onu e anche le Rsf. Grande assente è l’esercito regolare sudanese. Gli obiettivi dei colloqui, ha detto il segretario Usa Blinken, è di «raggiungere la cessazione delle violenze in tutto il Paese, consentire l’accesso umanitario e mettere in atto un solido meccanismo di monitoraggio e verifica per garantire l’attuazione di un eventuale accordo».