Editoria: portarsi a casa ricordi di viaggio è una pratica antica, lo racconta lo scrittore americano Rolf Potts nel suo ultimo saggio
In una favola di Gianni Rodari un uomo immaginava di portarsi via, blocco dopo blocco, l’intero Colosseo, perché lo voleva tutto per sé. Morì prima di riuscire a compiere l’impresa impossibile mentre la sua casa (come quella di un contemporaneo hoarder – ndr. accumulatore compulsivo) restò stipata di pietre.
Rolf Potts, scrittore americano che ha appena pubblicato in italiano un libello sull’origine dei souvenir, intitolato Souvenir, una storia culturale (il Saggiatore), non cita, nel suo testo, la parabola di Rodari, ma racconta l’origine della mania di accumulare riproduzioni di monumenti e di altri oggetti dai viaggi. Una pratica contemporanea dalla quale è difficile sottrarsi anche a causa delle centinaia di negozi che affollano le città d’arte, offrendo di tutto: magliette, cappelli, tazze, cucchiaini, calamite e accendini. Spesso, i «ricordini» non sono nemmeno originali del luogo, ma prodotti in Paesi con manodopera a basso costo, e in alcuni casi, possono essere ordinati direttamente per posta, senza dover mettere nemmeno piede nelle città.
Potts riferisce che la mania dei souvenir ha origini antiche. Le prime tracce arrivano dall’antico Egitto e dalla Mesopotamia, quando principi e alti funzionari tornavano dai viaggi carichi di pelli di animali esotici, zanne di elefante e incenso. I turisti ante litteram che giungevano ad Alessandria potevano acquistare vasi di ceramica a poco prezzo con incise le immagini di regine tolemaiche, mentre chi si recava sulle tombe di Achille e Patroclo, a Troia, comprava miniature d’argento dei templi della zona. Nell’antichità i santuari erano la fonte più fiorente dei souvenir non soltanto nel Mediterraneo: i buddisti che visitavano Bodh Gaya, in India, sceglievano tra uno stupa (monumento per la conservazione delle reliquie) in miniatura (in argilla), una stele di pietra con incisi eventi della vita del Budda oppure il modellino del tempio di Mahabodhi.
Secondo Potts, si può fare risalire la tradizione dei souvenir come fenomeno di massa ai pellegrinaggi cristiani, intorno al Trecento. L’entusiasmo per i reperti sacri si manifestò sul Monte degli Ulivi, dove l’attrazione principale era la Chiesa dell’Ascensione, costruita, scrive Potts, «per commemorare la versione evangelica degli ultimi momenti di Gesù sulla Terra prima di salire al cielo». Smaniosi di possedere la terra entrata in contatto con i piedi del messia, «i pellegrini in visita si misero a trafugarne a manciate, in quantità tale che i custodi si trovavano a doverla ricolmare nel giro di poche settimane». Per certi versi, il turismo moderno occidentale sarebbe iniziato con questo antico rito, che fu anche la prima forma di viaggio non militare, non commerciale né legato a motivi personali del Medioevo. La studiosa Beverly Gordon sostiene che il bisogno di portarsi a casa qualcosa dai luoghi sacri e straordinari serve per fermare un’esperienza effimera, fuori dal comune, aggrappandosi a un oggetto tangibile.
La smania di accaparrarsi souvenir non ha risparmiato il mondo anglosassone. Alla fine del 1700, Thomas Jefferson e John Adams, che all’epoca lavoravano come diplomatici in Francia e in Gran Bretagna, si imbarcarono in un tour dell’Inghilterra e, visitando la tomba del drammaturgo William Shakespeare, si comportarono in modo eccentrico: aiutandosi con un coltellino asportarono un pezzo ciascuno da un’antica sedia che sarebbe appartenuta all’autore dell’Amleto.
Sempre nello stesso periodo, i principi tedeschi lanciarono la moda delle Wunderkammern o gabinetti delle meraviglie: «Salette-museo ricolme di oggetti o manufatti curiosi che includevano minerali, pelli di animali, armi esotiche, porcellane Ming, sculture primitive, coralli o antiche pergamene». Addirittura si arrivò al paradosso di raccogliere finti esemplari di animali, come le «ali di drago» che una volta venivano incluse nelle raccolte di reliquie medioevali.
Il Grand Tour, il viaggio nell’Europa continentale, intrapreso dagli aristocratici europei a partire dal 1700, e che aveva come destinazione finale, di solito, l’Italia, amplificò il fenomeno. Come descrive Potts, si collezionavano «bulbi, tulipani e ceramiche in Olanda, cristalli ed erbe sulle Alpi svizzere, saponi profumati e stoviglie preziose a Milano». E c’era chi posava per un dipinto realizzato da ritrattisti dell’epoca a Roma o a Venezia.
Un aspetto interessante: l’emergere dei musei pubblici contribuì a conferire ai souvenir un’aurea raffinata, considerando che la loro acquisizione e messa in mostra si trasformò da un rituale perlopiù privato a qualcosa di collettivo. L’idea di museo pubblico si può attribuire, infatti, a Sir Hans Sloane, medico e naturalista britannico. Alla sua morte, nel 1753, la sua intera collezione di libri, disegni, flora, fauna e oggetti curiosi – settantamila oggetti, inclusi quarantamila libri – andarono a formare il nucleo del British Museum di Londra che aprì nel 1759 e crebbe di pari passo con un’epoca di viaggi, esplorazioni e conquiste sempre più ampi.
I reperti del British Museum alimentarono la fantasia dei romantici al punto che, sull’onda di uno dei componimenti meno noti di John Keats, intitolato Versi scritti guardando una ciocca dei capelli di Milton, all’inizio del 1800 in Inghilterra circolavano diversi ciuffi di Milton, frutto della profanazione della sua tomba nel 1790. La bara del poeta del Paradiso Perduto fu aperta da un gruppo di persone con l’ossessione feticista che rubò anche i denti al cadavere.
Negli anni successivi, negli Stati Uniti, i turisti in visita alla Casa Bianca asportavano brandelli delle tende della galleria e pezzi della scrivania del presidente della Camera. Le cartoline rappresentarono l’apoteosi della brama di ricordi del secolo scorso al punto che, nel 1904, in un solo anno, gli svedesi (all’epoca appena cinque milioni), furono capaci di inviare più di quarantotto milioni di cartoline dai loro viaggi.
Chiuso il libro di Potts, che elenca molte altre stranezze, viene da pensare che, forse, le calamite tutte uguali che compriamo per pochi euro nei luoghi turistici sono soltanto sfizi innocenti.