Il vero passaggio di consegne: da Hillary a Kamala

by Claudia

Alla convention di Chicago il Partito democratico americano ha portato unità e gioia, i dissapori e la brutalità che hanno stravolto una campagna presidenziale mesta e amara sono rimasti soltanto nei commenti aciduli di chi pensa che Kamala Harris, candidata alla Casa Bianca a novembre, sia soltanto una bolla – inopinatamente trionfalistica per di più. La famiglia dei democratici si è riunita festosa allo United Center – il palazzetto da 20mila persone dove giocano anche i Chicago Bulls: all’ingresso c’è una statua di Michael Jordan – ha ringraziato Joe Biden, il presidente che ha fatto un sofferto e straordinario passo indietro, e ha mostrato questa sua nuova faccia più giovane e più progressista che quando urla «futuro» risulta finalmente credibile.

Harris si è presentata sul palco il primo giorno per salutare e per ringraziare Biden: era raggiante, con il suo ormai iconico sorriso e l’aria così spontanea e naturale che sembra aver contagiato tutto il partito, tanto che la fretta con cui si è dovuto rifare tutto da capo dopo il ritiro di Biden è sembrata un ricordo. Poi gli altri speaker le hanno costruito la strada verso l’ultima serata, quella della nomina ufficiale del ticket candidato alle presidenziali, mentre lei ha continuato i suoi comizi in giro per il Paese.

Uno dei discorsi più belli lo ha pronunciato la prima sera Hillary Clinton, sconfitta da Donald Trump nell’elezione scioccante del 2016, per anni traumatizzata da quella batosta, rancorosa anche, e ora finalmente riabilitata da una standing ovation calorosa e commossa, che ha lavato via, per quanto possibile, decenni di ostilità nei suoi confronti.

Dopo otto anni, quel che accadde a Hillary Clinton è finalmente apparso nitido: una candidata annichilita dalle teorie del complotto trumpiane, dalle manipolazioni trumpiane, dalle ingerenze straniere pro trumpiane – un metodo che nel tempo si è affinato e che oggi viene usato contro Kamala Harris. Certo, l’America è spaccata e il voto per Donald Trump non è soltanto l’esito di un approccio eversivo alla politica, ma la dittatura di rabbia e vendetta come strumenti di potere è un prodotto puramente trumpiano che ha tenuto l’ex presidente saldo al comando di un Partito repubblicano che ha smesso da tempo di provare a recuperare la propria vocazione moderata.

Hillary Clinton è stata la prima a subire quel metodo di cui abbiamo preso consapevolezza in seguito alla sua sconfitta (e nemmeno subito). Sul palco di Chicago, interrotta da applausi continui, lei ha detto: «Dopo il 2016, ci siamo rifiutati di rassegnarci rispetto all’America, milioni di persone hanno protestato, alcuni si sono candidati, abbiamo tenuto gli occhi fissi sul futuro. Bene, amici miei, il futuro è qui». Hillary Clinton ha tracciato una linea tra la sua esperienza e quella di Kamala Harris, ha detto che non c’è nulla di sorprendente nel modo con cui Trump prende in giro Harris, il suo nome, il suo modo di ridere – «sounds familiar», ha detto Clinton: applauso – ma qualcosa è cambiato, c’è un’energia nuova, si sente ed è ovunque.

La linea dritta per Clinton ha a che fare con la possibilità che gli americani possano eleggere la loro prima presidente donna; ha citato il diritto di voto per le donne, l’emancipazione, le madri – la sua e quella di Harris – e i loro consigli: se fossero qui oggi, ha detto, ci direbbero «keep going». Clinton ha anche parlato del famoso soffitto di cristallo da mandare in frantumi: ci aveva provato, aveva fallito, ma oggi tra le crepe di quel soffitto «vi vedo», ha detto, perché sono profonde. Kamala Harris non gioca molto la carta della presidente donna – cosa che invece Clinton aveva fatto, ma le elettrici non si mobilitarono per lei – perché è rischiosa e perché ha scelto un’altra strategia, fatta di riscatto della classe media, di promesse per una qualità della vita migliorata, di lotta alla diseguaglianza e di diritti in un senso più ampio, per tutti.

Resta un passaggio del testimone potente tra due candidate, un rapporto che si è consolidato nel tempo, dietro le quinte, in cui le invidie hanno lasciato il passo a un cambiamento generazionale – Hillary ha 76 anni, Kamala 59 – e di approccio: Harris bada a ogni dettaglio proprio come Clinton, ma la differenza sta nell’assenza di rigidità, nella capacità di far sembrare naturale anche ciò che è costruito e studiato. La lezione di Hillary Clinton sta non soltanto nella linea dritta tra candidate, ma nella disciplina e nella serietà: Kamala Harris ci aggiunge la vivacità, l’energia, e la consapevolezza che nel 2016 quasi non c’era, perché Trump sembrava un accidente della storia destinato a scomparire nelle urne: la vittoria non è scontata, assieme ai rancori, i democratici hanno lasciato a casa il trionfalismo.

Hanno scelto di mostrare un partito vivo, combattivo, che guarda avanti e non indietro, e che quando ride fa molto sul serio.