L’insuperato titano della corsa

by Claudia

Alle Olimpiadi di una volta: correre per il cecoslovacco Emil Zátopek, denominato «Locomotiva umana», divenne prima una ragione di vita, poi una ragione di Stato

Ai Giochi Olimpici di Helsinki del 1952, Emil Zátopek entrò definitivamente nella storia vincendo ben tre ori in una sola settimana – nei 5mila metri, nei 10mila metri e nella maratona – assicurandosi così un record mai battuto. E trasformando il suo cognome, per oltre un decennio (dal 1948 al 1954), in un aggettivo sinonimo di «velocissimo». Stiamo parlando di uno dei più grandi corridori di tutti i luoghi e di tutti i tempi.

Nato in Cecoslovacchia, nella regione della Moravia, poco più di cento anni or sono (il 19 settembre 1922 a Kopřivnice), fu battezzato «La locomotiva umana».

Ancora oggi emoziona leggere la biografia romanzata che gli ha dedicato lo scrittore francese Jean Echenoz (Correre, Adelphi, 2009). L’abbiamo ripresa in mano a seguito delle ultime Olimpiadi, molto chiacchierate e sportivamente poco magiche: sarà mai più possibile rimanere incantati se non addirittura folgorati da una performance sportiva? Assisteremo più a prodezze tali da lasciarci tutti sbacaliti, come direbbe il buon Ceroni di casa? …e come riuscì nell’impresa, l’atleta Emil Zátopek, che inizialmente detestava tutto lo sport?

È così: al pluricampione olimpico, nei suoi primi anni, non piaceva per niente scendere in pista. La biografia lo racconta bene.

Ad avviarlo alla corsa è prima il suo datore di lavoro e poi il nazionalsocialismo: operaio in una fabbrica di scarpe, come rifilatore di suole (conta portare a casa i soldi per la numerosa famiglia; ha sei fratelli), è costretto a correre nella gara annuale chiamata «Percorso di Zlín» in quanto studente della scuola professionale, e deve farlo bardato di maglia con la sigla della ditta. Ma lui preferisce studiare. E lo fa fin quando gli stendardi nazisti dei tedeschi occupano la città (1939), con propagande che invadono anche le scuole: «Fra le prime iniziative dell’occupante c’è quella di organizzare manifestazioni sportive» …obbligatorie. Arriva secondo alla prima vera corsa a cui è costretto a partecipare. E a quel punto, correre per Emil diventa prima una ragione di vita, poi una ragione di Stato.

«Mentre i tedeschi (ndr: siamo attorno al 1942) impongono adesso il terrore nel protettorato, deportano e massacrano, bruciano e devastano a tutto spiano, continuare a correre permette forse di pensare ad altro». Il resto è storia: Emil diventa sempre più bravo, inventa lo sprint finale, si esercita in modo aerobico ma anche anaerobico, punta a essere sempre più veloce, in barba allo stile che tutti gli rimproverano, arrivando ad affermare che il giorno in cui per vincere una corsa si dovranno accumulare punti «estetici», allora penserà allo stile, ma fin quando vince il più veloce, a lui, il resto non interessa: «In corsa dà l’idea di un pugile che combatte contro la sua ombra, sicché tutto il suo corpo sembra un meccanismo scassato, sfasciato, sofferente, a parte l’armonia delle gambe che mordono e divorano la pista voracemente».

Arruolato, Emil Zátopek sarà usato sempre più quale gonfalone del partito comunista cecoslovacco, un’icona contro il fascismo, ma continuerà a sorridere anche quando quel guinzaglio inizierà a stringersi sempre di più. Piegato dal volere politico, calano anche le sue prestazioni. Si sposa. Torna di tanto in tanto a dar lezioni di velocità, però senza più esagerare. Non smette di sorridere, anche se da sorridere c’è ben poco, soprattutto a Praga «dove, in quegli anni, tutti hanno paura di tutti e di tutto, sempre e dappertutto. Nel superiore interesse del partito, la cosa più importante è adesso epurare, smantellare, annientare, liquidare gli elementi ostili. La stampa e la radio non parlano d’altro, la polizia e i servizi di sicurezza provvedono. Ognuno può in ogni momento finire sul banco degli imputati come traditore, spia, cospiratore, sabotatore, terrorista o provocatore, in quanto fautore, a scelta, di un’ideologia trotskista, titoista, sionista o socialdemocratica, essere considerato Kulak o nazionalista borghese. Chiunque, in qualunque momento, può ritrovarsi in prigione o in un campo, per motivi che in genere ignora».

Passano gli anni e il clima non aiuta a superare gli acciacchi dell’età che iniziano a farsi sentire: «Lui che dicevano immune da ogni défaillance è tradito da un corpo che si sottrae agli sforzi, nonostante il potere dell’orgoglio e della volontà».

Orgoglio e volontà che però ogni tanto tornano a manifestarsi, ma solo in pista: «La cosa si fa del resto evidente quando va a correre in Svizzera. Aveva puntato molto su questa gara, si era preparato come non mai. […] sembra inquieto, nervoso, quasi abbattuto mentre aspetta che la battaglia abbia inizio. Cammina un po’ curvo la testa incassata fra le spalle, il berretto calcato fin sulle orecchie alla faccia dell’eleganza. A Berna, allorché la squadra cecoslovacca viene invitata come d’uso a visitare la fabbrica di cioccolato, Emil si unisce educatamente agli altri (…) Sotto la pioggia, con quell’impermeabile, sembra un modesto impiegato che va al lavoro».

Alcuni parlano di lui già al passato, eppure: «A Berna – pista lucida e selva di ombrelli – la sua prestazione viene giudicata stupefacente, corsa scintillante, carosello fantastico, canottiera rossa punta di lancia nella lotta contro avversari che dicevano temibili e si sono rivelati inesistenti».

In Cecoslovacchia arriverà poi un momento di grazia, un assaggio di democrazia che durerà però pochissimo, fino alla fine degli anni Sessanta quando la Russia decide di invaderla per ripristinare il regime. Emil parteciperà alla Primavera di Praga, è il 1968, e gli costerà molto caro. Buttato fuori dall’esercito – dove a seguito dei risultati sportivi aveva fatto carriera – si ritrova prima operaio in un giacimento a cielo aperto di uranio, tra gas altamente radioattivi e polveri contaminate, poi a raccogliere sacchi di spazzatura, infine a scavare buche nella terra per infilarci pali del telegrafo. Eppure, lui continua a correre, per conto suo, come un Forrest Gump cui pare di poter sentirsi vivo solo facendo quello che sa fare meglio. Non smette mai di sorridere.

Lo scrittore Jean Echenoz lo definisce «il mite», ma lo fa con durezza. L’intera biografia è asciutta, scarna di fronzoli, severa: non giudica il corridore, non lo fa direttamente, ma sottotraccia scorre lungo tutte le pagine un sottile filo di rabbia trattenuta che grida all’ingiustizia, che sembrerebbe quasi chiamare a gran voce una qualsiasi forma di ribellione, come a dire che un gigante, un eroe, un «titano della corsa», com’è lui, non può, non deve piegarsi a tanti soprusi, quasi a voler spazzar via disciplina e umiltà inneggiando alla rivoluzione. È così forte tale irritazione, che a tratti ci è sembrato che Echenoz lo volesse prendere per le spalle e scuoterlo, come se avesse potuto risvegliare una reazione violenta in uno mite come Emil. Il quale, probabilmente, avrebbe ringraziato e sorriso.

«La curiosità lo spinge comunque a visitare lo zoo di Berna dove Emil è contento di vedere finalmente delle scimmie, specie che in Cecoslovacca non ha ancora diritto di cittadinanza. Ma le scimmie sembrano cattive, inacidite, amare, perennemente scocciate di aver mancato giusto per un pelo l’umanità. È un pensiero che le assilla, è indubbio, un chiodo fisso. Hanno una gran voglia di fartela pagare».

Orgoglio, resistenza, fatiche, sofferenze, sacrifici, disciplina, caparbietà, costanza,… ci sono impasti d’uomo che possono portare a superare sempre i propri limiti, se non davvero per riscattarsi, o solo per vincere, di certo per sentirsi vivi e autodeterminanti, anche e soprattutto quando non si può avere il controllo della propria vita. Sportivi così, se ne vedono sempre di meno. Forse, per fortuna. Forse.

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