A tre anni dal loro rientro a Kabul propiziato dalla vergognosa ritirata americana travestita da «accordi di pace», i talebani si fanno ancora una volta beffe degli «accordi» in questione organizzando nella base militare di Bagram una trionfale sfilata di mezzi militari abbandonati dalle truppe Usa. Il governo degli integralisti islamici, i cui capi fanno ancora parte della lista di terroristi delle Nazioni Unite e dei Paesi di mezzo mondo, ribadisce ancora una volta che il «governo transitorio» di cui si parlava negli accordi intende rimanere al potere a oltranza: la democrazia è un concetto occidentale e sopravvalutato e come tale non applicabile all’Afghanistan o ad alcun Paese timorato di Dio. D’altra parte, anche se nessun Paese ha formalmente riconosciuto il governo di Kabul, i terroristi al potere si sentono in una botte di ferro.
Gli Stati Uniti, a partire dal momento in cui si sono ritirati, hanno fornito 17,9 miliardi di dollari per «aiuti umanitari» all’Afghanistan: di cui, denuncia con tanto di prove l’organizzazione Sigar (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction) almeno 293 milioni sono finiti dritti nelle tasche dei talebani. Che, riconoscimento ufficiale o no, se la passano piuttosto bene. A Bagram, ad applaudire carrarmati, elicotteri ed armi del valore di più di cinque miliardi di dollari, si trovavano diplomatici iraniani e cinesi, e il governo di Kabul ha appena chiuso un miliardario accordo commerciale con l’Uzbekistan.
A gennaio, un inviato dei talebani ha presentato le proprie credenziali diplomatiche a Pechino: che, anche se non ha ancora ufficialmente riconosciuto il governo talebano, ha mantenuto un canale diplomatico aperto con Kabul cercando di proteggere i suoi interessi strategici nella regione, anche agendo attraverso il vicino Pakistan. Una riunione ad alto livello a Islamabad, presieduta dal premier Shehbaz Sharif ha dato difatti il via libera all’operazione «Azm-e-Istehkam», o «Resolve for Stability»: per «combattere le minacce dell’estremismo e del terrorismo in modo completo e decisivo» a livello sia diplomatico che militare, ufficialmente. Ma soprattutto, dicono, per convincere i cinesi, preoccupati per i numerosi attacchi contro cittadini e infrastrutture cinesi avvenuti nei mesi scorsi in Pakistan, che l’esercito e la politica prendono sul serio la sicurezza dei cittadini del Sol Levante e dei progetti legati al China-Pakistan Economic Corridor. E in effetti, secondo dati del South Asia Terrorism Portal, le vittime legate al terrorismo sono state nella prima metà del 2024 circa trecento. Islamabad attribuisce la responsabilità dell’aumento degli attacchi terroristici al Tehrik-e-Taliban Pakistan, che secondo Islamabad possiede le sue basi nel vicino Afghanistan. E, come nel 2009, concentra le sue operazioni nelle provincie di confine: aree tribali, Waziristan, Khyber-Pakhtunkwa.
Esattamente come nel 2009, però, a parlare con gli abitanti della zona che da mesi scendono in piazza con dimostrazioni pacifiche di migliaia e migliaia di persone costantemente e scientemente ignorate dai media, le cose non stanno proprio come il Governo le dipinge. Da anni ormai gli abitanti della zona protestano contro Islamabad e vengono regolarmente ammazzati, fatti scomparire o arrestati senza accuse formali e senza alcun processo. Da tempo ormai i cittadini denunciano la presenza di comandanti talebani in Waziristan: secondo gli abitanti del luogo, i talebani hanno ricevuto terre e a volte interi distretti. Amministrano la giustizia secondo la sharia e sono stati messi a capo delle cosiddette «Commissioni di pace», volte a risanare i rapporti con i cittadini comuni che li odiano. Uno dei primi atti della Commissione di pace è stato quello di bruciare vivi cinque abitanti di un villaggio.
I cittadini, stretti tra le angherie dei militari e quelle dei capi talebani (che in molti casi dividono fraternamente il quartier generale), non vedono via d’uscita: le estorsioni e le minacce sono all’ordine del giorno, così come le rappresaglie ai danni di chi si rifiuta di cooperare. Non solo: sono apparsi ovunque manifesti che vietano le solite buone, vecchie cose a cui il regime talebano ci ha abituato: le donne non possono uscire da sole, gli uomini non possono tagliarsi la barba, le persone non possono ascoltare musica e così via.
Non deve sorprendere quindi che nei mesi scorsi in Pakistan, nelle aree di influenza di questi tristi figuri, un certo numero di scuole femminili sia stato attaccato: alcune scuole sono state date alle fiamme, alcune bombardate con granate e molotov, altre rese inagibili da atti vandalici di vario genere. Risultato: le bambine rimangono a casa, esattamente come dall’altra parte del confine, in Afghanistan. Tanto, l’oltraggio di intellettuali e benpensanti dura appena un paio di giorni ed è, purtroppo, largamente di facciata. Come quello del resto del mondo, d’altra parte. Infatti, le Nazioni Unite hanno permesso ai talebani di partecipare al terzo incontro di Doha sull’Afghanistan accettando le loro condizioni: a condizione, cioè, che al meeting non partecipassero donne o rappresentanti della società civile afghana.
Dall’epoca dello sciagurato trattato di Doha, le Nazioni Unite si affannano a unirsi al coro scellerato di coloro che chiedevano (e chiedono) di dare una possibilità a un branco di assassini prezzolati che violano ogni norma di civiltà: negli ultimi giorni, un ragazzo colpevole di aver parlato al telefono con una ragazzina è stato preso, torturato e stuprato mentre i suoi torturatori riprendevano il tutto e lo pubblicavano in rete. Un rapporto di una Ong appena pubblicato sullo Spectator inglese documenta stupri e violenze di ogni genere ai danni delle donne nelle prigioni afghane: le Nazioni Unite esprimono la loro preoccupazione e la volontà di investigare, ma continuano a trattare i talebani come fossero un normale governo, nonostante il loro ultimo editto, emanato dopo la trionfale sfilata di Bagram, vieti formalmente alle donne non solo di mostrare un qualunque centimetro di pelle, mani incluse, ma anche di leggere o parlare in pubblico: anche la voce di una donna, secondo i pii assassini di Kabul, può suscitare pensieri peccaminosi. Mentre a giornali e televisioni viene vietato, oltre a tutto il resto, di pubblicare immagini di esseri umani o di animali. D’altra parte, come si dice, gli affari sono affari.
Si dice anche che l’Iran, non proprio un bastione dei diritti umani e della democrazia, sia pronto a riconoscere ufficialmente i tagliagole di Kabul. In cambio, si dice, di un sostanzioso invio di truppe talebane nel caso di una guerra vera e propria con Hezbollah per difendere e sostenere i fratelli di Hamas. Mentre il Pakistan, che di Hamas è paladino e sostenitore, benedice da lontano continuando a giocare al buon vecchio gioco dei terroristi buoni contro terroristi cattivi: che sono semplicemente quelli, come il mostro di Frankenstein, sfuggiti al controllo del loro creatore.