Casa Bianca, dove si gioca la vittoria

Subito dopo il confronto tv di settimana scorsa tra Donald Trump e Kamala Harris, il mondo dei media per qualche ora è stato impegnato a chiedersi se l’endorsement di Taylor Swift sposterà voti a favore dei democratici; oppure a fare il conto, come in una sfida di pugilato, dei punti segnati dall’uno o dall’altra sfidante. Così è passato sotto silenzio l’aspetto più preoccupante di quel duello. Nessuno dei due candidati alla presidenza degli Stati Uniti d’America ha detto chiaramente quale sia il suo programma di Governo, tantomeno con quali mezzi abbia intenzione di finanziarlo. Il dibattito Harris-Trump è stato un gioco al massacro in cui ciascuno ha cercato di distruggere l’immagine dell’avversario ma non è stato un bello spettacolo, indegno di una democrazia civile evoluta, concreta e pragmatica.

Quel martedì 11 settembre si era capito che non era una serata felice per lui quando Trump, affrontando un tema che gli è congeniale e favorevole come l’immigrazione clandestina, insisteva sul fatto che gli stranieri illegali si sfamano dando la caccia agli animali domestici, cani e gatti. L’incapacità di controllare i flussi in ingresso è un tallone d’Achille della Harris. Una maggioranza di americani – non solo a destra – pensa che l’esecutivo Biden-Harris abbia gestito malissimo l’emergenza dei transiti illegali alla frontiera. Molti associano l’immigrazione clandestina a una pressione al ribasso sui loro salari, a un senso di insicurezza, a fenomeni di criminalità. La scomparsa di cani e gatti è un allarme stravagante, al confronto. Trump è fatto così, può acchiappare da qualche tabloid una voce o fake news nata chissà come, e sporcare con una polemica strampalata un tema serio che lo vede in vantaggio.

La performance di Trump è stata mediocre, ma l’America resta divisa in due tifoserie che hanno affrontato il match già schierati da una parte o dall’altra. I trumpiani possono essere delusi o perfino furibondi, ma non cambiano parere. Harris nello studio Abc di Philadelphia è arrivata più preparata, meglio allenata, più agguerrita e concentrata. È stata in difficoltà e sulla difensiva quando si affrontavano i temi favorevoli a Trump: economia e immigrazione. Poi è passata lei all’attacco sui temi che l’hanno sempre vista in vantaggio: aborto e difesa della legalità democratica.

Trump è apparso confuso quando ha dovuto difendersi sull’aborto. La sua posizione è cambiata più volte. Da quando ha verificato che la posizione antiabortista più intransigente fa perdere voti, si è spostato in una zona intermedia. L’ultima decisione della Corte Suprema rinvia la decisione agli Stati, molti dei quali hanno indetto o stanno per organizzare dei referendum, e a lui sta bene che l’ultima parola spetti al popolo. Però ha articolato questa posizione in modo poco comprensibile, forse anche per paura di scontentare la base evangelica e di esplicitare la sua distanza dal suo vice J.D. Vance (molto più vicino alla destra religiosa, proprio come lo era stato il suo primo vice, Mike Pence).

Kamala Harris è apparsa vaga e non del tutto convincente quando ha giustificato le sue tante giravolte dicendo che comunque «i miei ideali non sono cambiati». È una frase che lanciò in pasto alla base democratica durante la convention di Chicago, e il pubblico amico si accontentò. Gli elettori moderati e indecisi potrebbero nutrire il sospetto che cambierà ancora posizione, una volta insediata alla Casa Bianca. E adesso? Cosa deve fare Trump per rimediare? Che cosa può fare Kamala Harris per consolidare il vantaggio, ammesso che si dimostri sostanziale e durevole nei sondaggi post-dibattito? La stessa serata nello studio Abc di Philadelphia ha anticipato alcune risposte e suggerito le strategie per gli ultimi 53 giorni.

Economia e immigrazione sono i due temi più importanti per gli elettori. E sono i terreni dove lui è considerato più credibile. Per esempio quando ricorda che l’inflazione è scoppiata sotto l’Amministrazione Biden-Harris. Che i suoi dazi contro la Cina sono stati copiati dai democratici. Che sulla blindatura del confine col Messico ora Harris promette un «trumpismo di sinistra», ma quando fu incaricata del dossier migranti lei rimediò un fiasco e critiche da tutte le parti. Trump ha un bisogno disperato di riportare l’attenzione – a cominciare dalla sua – su questo. Deve ricordare che nel 2020 Harris prometteva il contrario: frontiere aperte, depenalizzazione del reato d’immigrazione clandestina, riduzione degli organici di polizia. Deve incollare l’avversaria ai suoi tre anni e mezzo di potere esecutivo, ricordare che le sue promesse attuali poteva già realizzarle dal 2021.

Perfino sul terreno delle politiche energetiche – cruciali in Stati-chiave come la Pennsylvania – Trump è in posizione di forza. Nel 2016 era il negazionista del cambiamento climatico che stracciava gli accordi di Parigi. Oggi è Harris a stracciare la propria promessa di vietare l’estrazione di gas e petrolio con il fracking (fratturazione idraulica): le sanzioni contro Russia e Iran, il monopolio cinese su batterie e pannelli solari, hanno costretto la sinistra ad accantonare alcuni slogan del Green New Deal, in nome della sicurezza nazionale e dell’autosufficienza energetica. Lui può permettersi anche di ricordare «zero guerre durante la mia presidenza, due conflitti sotto Biden-Harris», per quanto la politica estera sia in secondo piano. Sulla carta, insomma, Trump ha una strategia di rimonta che è ovvia: su questioni di fondo è più sintonia lui con l’opinione pubblica americana.

Ma per focalizzarsi sui suoi punti di forza, deve smettere di essere Trump. Dovrebbe guarire dal narcisismo per cui si è lanciato a testa bassa come il toro verso il drappo rosso, quando Kamala lo ha provocato sulle folle che si diradano per noia durante i suoi comizi… Vero o falso, è caduto nella trappola, ha ceduto a tutte le provocazioni. Una risalita di Trump richiede disciplina, autocontrollo, allenamento. E un pizzico di umiltà per parlare solo delle cose che interessano gli americani, tralasciando quelle che glorificano o feriscono il suo ego.

Per Kamala la via maestra sembra essere «more of the same», rincarare la dose. Ha dato il meglio di sé sull’aborto, non solo perché la sua posizione è più popolare ma anche perché ha calato i principi in concrete tragedie umane: come le vittime di incesto che in certi Stati sono costrette a portare a termine la gravidanza. Ha difeso la riforma sanitaria detta Obamacare (che Trump tentò di far abrogare dal Congresso), ricordando l’orrore che esisteva prima, quando una compagnia assicurativa poteva rifiutarsi di vendere una polizza a un paziente perché malato. Ha evitato programmi troppo precisi, ha promesso assistenza a tutti senza specificare come finanziarla, contando sull’indulgenza dei media, per coniugare la svolta moderata e centrista con l’appoggio dell’ala sinistra del suo partito. Si è staccata dal presidente che l’ha scelta e poi l’ha candidata: «Io non sono Biden; questa non è più la sfida fra Trump e Biden» è uno dei leitmotiv che scandivano la serata.

Dovrà continuare questa sua campagna da vicepresidente in carica che si presenta però come una novità, come un cambiamento non solo generazionale ma perfino politico, quasi un profilo da capa dell’opposizione. A Kamala Harris basta non scivolare di nuovo nella bolla californiana, nella presunzione che le masse popolari obbediscano ciecamente agli endorsement delle celebrity, si chiamino George Clooney o Taylor Swift. Per il resto sembra avere anche lei un percorso già tracciato. Almeno lei ascolta i consiglieri e segue le istruzioni.

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