C’è un grande Paese che non è ancora un Grande della Terra ma che è certo di diventarlo. E che già si muove sulla scena internazionale con questa certezza. Si tratta dell’India. Meglio, Bharat: suo antico nome di origine sanscrita che Delhi spende sulla scena internazionale per segnalare notevoli ambizioni di potenza, ricollegandosi a più o meno effettive radici imperiali. Per chi ne fosse curioso, è consigliabile una puntata al Parlamento di Delhi, dove spicca un murale che rappresenta Bharat come una sorta di India indivisa, allargata a Pakistan, spicchi di Afghanistan e Cina, più Sri Lanka, Nepal, Bhutan, Myanmar e Bangladesh. Obiettivo di lungo periodo o semplice logo propagandistico? Le due ipotesi possono coesistere nel Paese oggi dominato dalla figura di un leader carismatico, Narendra Modi, che ha appena inaugurato il suo terzo, non necessariamente ultimo, quinquennio da primo ministro.
Come quasi tutti i Paesi con ambizioni speciali, anche l’India/Bharat poggia la sua narrazione sulla riscrittura della storia. Al di là dei riferimenti al passato remoto, conta soprattutto la cesura con l’India dei padri fondatori – Gandhi e Nehru. Da cui deriva la dinastia che ha retto il timone indiano nei primi decenni di indipendenza, sotto forma di egemonia del partito del Congresso. Dotato di una classe dirigente politicamente laica, non allineata, priva di ambizioni grandiose. Il contrario di questo Bharat: forte impronta indù, incarnata da Modi che prima di essere un capo politico è un leader religioso, garante dell’idea di trasformare genoma e strategia della più popolosa Nazione al mondo, con oltre un miliardo e 400 milioni di abitanti. Per farne uno Stato indù, relegando in posizioni sempre più secondarie le minoranze, in primo luogo la musulmana (200 milioni). E di fare di tale Stato un protagonista del mondo multipolare che secondo Modi è il destino di questo secolo.
Progetti grandiosi che cozzano con alcuni dati economici e sociali. L’India è la quinta economia al mondo in termini di Pil, destinata forse a piazzarsi terza entro un decennio. Ha punte di eccellenza tecnologica note e riconosciute ovunque, e una diaspora diffusa, soprattutto nel Golfo (9 milioni) e negli Usa (5 milioni, Kamala Harris compresa). Allo stesso tempo, il reddito medio pro capite è di 2500 dollari. Indicatore da Terzo Mondo. I quattro quinti dell’economia afferiscono al settore informale. Le punte di ricchezza estrema (l’1% degli indiani controlla il 40% del Pil) incrociano cime abissali di miseria. E riflessi strazianti sulla qualità della vita. Per dirla con Modi: «Più che di templi, abbiamo bisogno di cessi».
La strategia di Bharat è illustrata dal brillante ministro degli Esteri Subrahmanyam Jaishankar, rockstar sulla scena diplomatico-mediatica internazionale. In parole povere, si tratta di fare del Subcontinente indiano un polo di potenza su scala mondiale, centrato su Delhi. In prospettiva affiancabile a Pechino, Washington, Mosca. Rinnegando il non allineamento – che all’atto pratico si risolveva ai tempi della guerra fredda in una linea filosovietica – Jaishankar propugna un attivismo basato sulla centralità dei propri interessi. Nessun alleato, tanti possibili allineamenti a seconda dei dossier e delle circostanze. Esempio: con la Russia in campo militare (le armi indiane sono quasi tutte moscovite) e su questioni strategiche in buona parte d’Eurasia, guerra di Ucraina compresa; con l’America nel contenimento della Cina, avversario assoluto, e conseguente proiezione di potenza nell’Oceano Indiano e nell’area dell’Indo-Pacifico; e sempre massimo di agilità opportunistica con chiunque.
Nel mondo in transizione dall’egemonia a stelle e strisce verso il caos più o meno controllato, l’India/Bharat sente di poter elevare in parallelo il suo status geopolitico e il suo grado di benessere socio-economico. È realistico? Forse. Qualche bemolle. In primo luogo, difficile costruirsi una sfera di influenza se alle frontiere hai solo avversari e problemi. Dall’arcinemico Pakistan alla Cina, i vicini tengono in costante apprensione Delhi. I contenziosi frontalieri con pakistani e cinesi sono sempre gli stessi, dal Kashmir alle porzioni di Himalaya che dividono l’India dalla Cina. Il recente colpo di Stato in Bangladesh (ex Pakistan orientale) rende anche quel vicino inaffidabile se non ostile. L’unico partner regionale amico – quasi una colonia – è il piccolo Bhutan.
Secondo, le faglie domestiche. La più evidente è quella linguistica. 22 lingue «principali», 38 che pretendono status analogo, oltre a un migliaio e mezzo di dialetti sono una barriera storica che non può essere superata adottando l’inglese come koiné. In quanto idioma dei colonizzatori, ma soprattutto perché fruibile solo a livello delle classi alte o medio-alte. Lo hinglish è abbastanza peculiare nell’anglofonia, poco comprensibile al di fuori del Subcontinente. Inoltre, le barriere religiose, che con Modi e il suo Bjp si alzano a scapito di musulmani, cristiani, sikh e ulteriori minoranze, con forti dislivelli fra i singoli Stati federati. Infine, la difficoltà di gestire da Delhi l’arcipelago dei 28 Stati e 8 territori.
Terzo, la tendenza autoritaria, con acute punte repressive, dell’attuale Governo di marca indù, che mette in questione stabilità e legittimazione delle istituzioni. Quarto, lo scaltro opportunismo geopolitico ha i suoi limiti. La tesi di Jaishankar, per cui la bussola sono gli interessi dell’India e tutto si regola di conseguenza si presta a troppe interpretazioni. Se Bharat fosse già grande potenza, avrebbe senso. Adesso il rischio di finire fra due sedie per eccesso di furbizia è notevole. Certezza finale: di Bharat sentiremo parlare nei prossimi anni molto più di quanto accaduto dal 15 agosto 1947, giorno della sua indipendenza, a oggi.