«Non si sa niente»

by Claudia

L’arte di convivere con l’idea della morte

L’ultimo libro di Claudio Damiani Prima di nascere, si apre con una riflessione aperta, senza sconti e priva di retorica, rivolta al lettore, sul senso riposto dell’esistenza, sui suoi tanti modi di manifestarsi ma anche sull’idea di appartenenza a una comunità, sempre però in cammino verso qualcosa di non pienamente captabile. E la condizione finale di ognuno, la morte, ci suggerisce il poeta, è forse tornare a far parte di un più ampio spazio-tempo, anche forse di quel passato che si allunga nei millenni addietro.

Subito però, quasi a fare da contraltare a questo momento di speculazione alta, ecco una serie di poesie sulla guerra, che sembrano quasi vanificare la profondità di questa riflessione, verso una dimensione accorciata, senza orizzonte, di ogni esistenza. La precarietà della vita insomma, minacciata anzitutto dalle perduranti guerre globali, si fa ancor più evidente, con la complessità sempre più pervasiva della tecnica che avanza e aumenta il senso della dispersione umana, intesa come sua montante marginalità per paradosso, rispetto a tutto ciò che ci gira attorno: «…/ perché sappiamo tanto, abbiamo tanta scienza / ma di noi non sappiamo niente, / e con la scienza, con la tecnologia / ancor più stride la nostra mortalità / e precarietà, …/…».

Il corpo di tutti noi, le sue domande, sembrano polverizzarsi sempre più. Il tempo della tecnica avanzata quindi, così importante per le vite attuali, non chiarisce il mistero e il destino di ognuno, anzi lo scurisce. Dove il dominio dell’uomo si spingerà, quanto muterà l’ordine naturale millenario? Ecco allora, arrivare l’arte a rendere nitido l’oltre frontiera; vi sono difatti tra le pagine, ritratti di una cosmogonia così profonda, che rasentano un fantastico veridico. E difatti andando avanti nel libro, si amplia sempre più il rapporto tra tempo e natura, vista questa come suo corrugamento ma anche trasformazione. Il poeta torna in essa come vivificato, pensandola come un elisir che restituisce, a chi vi penetra, lo sguardo arioso delle lunghe stagioni.

Sembra ancora, a legger bene tra le righe, che Femio e Domodoco, aedi omerici citati, spuntino dietro il verderame dei boschi, le ombreggiature. La natura si fa quinta fondamentale del discorso, ritornante a più riprese, sul mito classico. E Damiani si avvicina a essa, sempre da prospettive diverse; e in questa speculazione febbrile, il pensiero corre sulla vita futura, non di un futuro anteriore ma remoto e completamente nuovo, così come sull’esistere di prima della nostra vita: «Quando ero piccolo avevo le vertigini / a pensare dove ero stato prima / di nascere, mi vedevo come sospeso / nel non essere, un infinito abisso, / ora invece so che ho vissuto / tutto il tempo per tutto il tempo che è stato /…».

In questo viaggio-cammino, il linguaggio da monologante diviene dialogico, pieno di prospettiva e suggestione, con un tu altro ma sempre vicinissimo. Domande poste in forma piana, vanno a braccetto con risposte dubbiose, sul tempo, la sua percezione. Su questa riflessione sempre serrata su natura e tempo, ecco innestarsi quella sul girone famigliare, gli affetti, la loro futura mancanza. Parlano nel libro talune aporie: fugacità dell’esistenza individuale sì, ma dentro la grandezza inscalfibile dell’universo, di cui siamo partecipi. E per Damiani questo fatto-verità, nascita per la morte, è sacro, occorre non rifuggirlo ma contemplarlo (nella foto il dipinto di Gustav Klimt Vita e morte, 1910).

Tutta la speculazione del poeta, sembra nutrirsi di quel culmine classico di riflessione poetico-filosofica; ecco difatti soccorrere le immagini della classicità, in questo caso rappresentata dall’Eneide di Virgilio, quando nel libro quarto, si fa innanzi ad Enea, il padre Anchise, quasi a dilatare in un tempo ritrovato, il rapporto tra vivi e morti: «Non siete più, è vero, / ma questo non vuol dire che non ci siete, / devo sapere trovarvi, / intanto farmi vedere io a voi, /…». Damiani sembra suggerirci: siamo comunque dentro una grande incomprensibilità, accettarla è la vera grandezza. 

Riprendendo il pensiero del filosofo Severino, pare al poeta che i sistemi del grande pensiero millenario vacillino e occorra andare alla ricerca di una nuova parola, che non sia mera equazione, legge, ma che venga dalla natura e dalla sua presenza metastorica. Una parola definitiva e comprensiva di tutte le altre, intuibile da ogni cultura e sensibilità. Nel tempo che viviamo, questa l’ultima grande intuizione di Claudio Damiani, l’eternità, se sappiamo sentirla, è contenuta in ogni attimo; cosa importa quindi vivere poco più o poco meno. E il libro sembra salutarci, quasi accomiatarsi sibillino: «… Abbiamo frammenti troppo piccoli, non vediamo l’immagine, non la montiamo nelle mente, … C’è solo data una realtà di fatto, momentanea. Ma non si sanno le cause, e i fini. Non si sa niente …».

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