Il Kunstmuseum di Basilea espone una collettiva di 120 artisti e 150 opere
Negli ultimi decenni le opere degli artisti di colore hanno iniziato a essere conosciute sia dentro che fuori dai confini del continente africano, e a essere oggetto di maggiore attenzione anche nel panorama artistico internazionale. Tuttavia, nonostante il crescente interesse e l’apprezzamento, l’arte contemporanea africana continua a essere meno nota e accessibile al grande pubblico rispetto all’arte occidentale e anche asiatica, non da ultimo considerata la ridotta possibilità di circolare degli artisti, anche nel loro continente.
Stabilito che l’arte contemporanea definita africana sia un tema trasversale, ovvero la somma di stili e produzioni nazionali del continente, più l’intera produzione degli artisti africani della diaspora, è dunque evidente come non si possa ancora parlare di una sufficiente presenza nei musei. Il Kunstmuseum di Basilea colma ora questa lacuna con When We See Us – Un secolo di pittura figurativa panafricana, un vero e proprio circuito panafricano allestito negli ariosi locali del «Gegenwart», l’edificio in riva al Reno.
Sui quattro piani del museo la mostra raduna oltre 150 opere – per lo più autoritratti e ritratti inediti – di 120 artisti. Si tratta di dipinti figurativi con un loro eloquente messaggio: «Noi siamo così come ci vediamo noi, e non come gli altri ci hanno sinora sempre rappresentato e giudicato». La mostra muove infatti dal punto di vista degli artisti stessi, ovvero da come loro si rappresentano, ritraggono il loro quotidiano e la loro vita (The Birthday Party è il titolo dell’opera di Esiri Erheriene-Essi) e da come hanno vissuto la loro arte. Il titolo della mostra si ispira all’omonima miniserie Netflix (2019) della regista afroamericana Ava Vernay, nella quale si tematizza appunto come i giovani di colore vengano giudicati dai bianchi sempre e soltanto quali potenziali delinquenti, e per conseguenza immediatamente percepiti come una minaccia. Ecco che nel titolo il They (loro) diventa We (noi) proprio a significare il mutamento di prospettiva. Incessante è il confronto con sé stessi e con gli altri, con la propria origine, la propria terra e le proprie tradizioni, con la migrazione e con i complessi meccanismi geopolitici spesso fonte di equivoci e incomprensioni. Un legittimo desiderio individuale e collettivo di elaborare un passato segnato da soprusi, discriminazioni, violenza e sottomissione, onde privilegiare il presente, sempre all’insegna della speranza di un futuro migliore. Una propria visione che a prescindere da ogni localismo e da appartenenze a diversificate narrazioni particolari, ha permesso agli artisti di ottenere una loro forte identità che è più che legittimo difendere.
La mostra è ripresa dallo Zeitz Museum of Contemporary Art Africa di Città del Capo – il più grande museo di arte contemporanea africana – e adattata per il Kunstmuseum con la collaborazione di Anita Haldemann, Maja Wismer e Daniel Kurjakovic, e anche grazie all’aiuto del Centro per Studi africani dell’Università di Basilea. Secondo Koyo Kouoh, direttrice del museo sudafricano e curatrice responsabile, e del suo team, l’intento dell’esposizione è soprattutto quello di mostrare entusiasmo e gioia (la Black Joy) di questi artisti, e lo si è fatto chinandosi soprattutto su opere che consentano di prescindere sia da traumi, violenza, fame e miseria, sia da conflitti armati, colonialismo e post colonialismo. Aspetti ed etichette che non possono e non devono essere la sola chiave di lettura dell’arte africana, e da cui gli artisti contemporanei desiderano giustamente emanciparsi. Anche l’Africa folcloristica, quella dei safari, delle piume e di qualsiasi altro stereotipo sono dunque completamente assenti dalla mostra, per far posto ad aspetti più personali e intimistici.
I lavori sono raggruppati in sei diversi settori e non seguono un filo cronologico né geografico: «Il Quotidiano», «Gioia e allegria», «Riposo», «Trionfo e emancipazione» «Sensualità», «Spiritualità».
Ci piace ricordare in particolare le opere presenti nel settore «Spiritualità», eloquente testimonianza di una spiritualità profondamente vissuta: per esempio lo straordinario The Dumb Oracle (2019) di Michael Armitage. Accompagnano l’interessante rassegna di Basilea, concerti, serate di letteratura, workshop, visite guidate, un bel catalogo e un’esaustiva audioguida.