Uno degli effetti più palesi (e, ahimè, lamentati) legati alla capillare diffusione dei social network – nonché alla loro presenza sempre più pervasiva nelle nostre vite – sembra essere la progressiva perdita di contatto con la realtà a favore di un’immagine idealizzata e ingannevole del mondo, spesso plasmata ad arte da personaggi che, innalzatisi al rango di vere e proprie «leggende viventi», cercano di accumulare più followers possibili. Non solo: a volte, la dorata illusione propinata dall’influencer di turno può anche servire a celare dinamiche ambigue, se non addirittura pericolose; come dimostrato dal recente scandalo che ha coinvolto l’ex modella Kat Torres, uno dei più seguiti fenomeni del web, condannata a otto anni per traffico di esseri umani – nello specifico, di alcune sue followers, le quali, attirate dalla diva con la prospettiva di un’allettante offerta di impiego come assistenti personali, sarebbero state da lei sequestrate e ridotte a schiave al suo servizio.
Di fatto, passare dall’idolatria per un role model digitale alla condizione di sua vittima è forse più facile di quel che si pensi: il potere di suggestione che i nuovi miti virtuali esercitano sui loro «seguaci» è innegabile, soprattutto se, come nel caso della Torres, si mettono in campo armi suggestive come il concetto di empowerment femminile. Dotata di innegabile bellezza e fascino, Kat si è infatti presentata al suo pubblico come una self-made woman che, nonostante un’infanzia difficile nelle favelas brasiliane, aveva conquistato il sogno americano nella sua accezione più pura, raggiungendo il successo come fotomodella e documentando la propria parabola ascendente tramite una seguitissima pagina Instagram improntata alla celebrazione di una vita patinata e all’insegna del lusso. Una popolarità che lo spirito imprenditoriale della Torres ha reso travolgente con il lancio della sua attività di «guida spirituale» sul web: come figura a cavallo tra life coach e guru dal sapore new age, le cui consulenze private raggiungevano cifre ragguardevoli, Kat ha presto accumulato un seguito di oltre un milione di aficionados, quasi interamente composto da donne desiderose di reinventare le proprie vite grazie agli insegnamenti di chi, ai loro occhi, rappresentava una sorta di messia digitale.
Tuttavia, dietro le quinte le cose erano alquanto diverse, dato che, al loro arrivo presso la casa statunitense della Torres, le ragazze da lei irretite con la proposta di un impiego trovavano un’abitazione sporca e caotica, assai lontana dall’immagine promossa sui social network. Sfacciatamente sfruttate da una datrice di lavoro dittatoriale e instabile, almeno due delle sventurate sarebbero state da lei costrette alla prostituzione, scomparendo a tutti gli effetti dalla circolazione per essere infine rintracciate soltanto quando la Torres è stata contattata dalle autorità. Oggi in prigione in Brasile, la sedicente «influencer» coltiva tuttora un’alta opinione di sé, al punto da non poter nemmeno concepire alcuna sorta di colpa personale – mentre le fan, ormai disilluse, cercano di scendere a patti con la dura realtà.
L’insegnamento che si può trarre da una storia tanto sordida appare, purtroppo, assai rilevante in un’epoca come la nostra, in cui la reputazione personale si basa in gran parte sull’apparenza e in cui chiunque può costruirsi un’immagine su misura al fine di incantare le masse; e il rischio si fa ancora più forte nel caso in cui entri in gioco il cosiddetto «transfert» psicologico, inevitabilmente destinato a prodursi tra le persone bisognose di supporto emotivo e la figura di riferimento a cui decidono di affidarsi – in un meccanismo in questo caso non troppo dissimile da quello che si produce all’interno delle sette.
Forse, l’unico antidoto a un simile rischio risiederebbe nella volontà di sviluppare un forte senso critico nei riguardi di tutto quanto viene mostrato e, soprattutto, esaltato e mitizzato sui social network, così come dei personaggi che tramite essi ricercano notorietà e ricchezza – soprattutto perché il caso di Kat Torres dimostra come il reato di plagio, troppo spesso sottovalutato anche dalla legge, sia, in realtà, sempre dietro l’angolo.