È scomparso negli scorsi giorni Renato Agostinetti, anima del Cabaret della Svizzera italiana
La scomparsa di Renato Agostinetti è stata connotata come una sorta di lutto per il teatro ticinese. Un’interpretazione forse eccessiva se letta in senso filologico, ma più che calzante in senso stretto, soprattutto se vista in relazione a ciò che ha rappresentato per la nostra realtà.
In effetti, da questo punto di vista, mai come con la sua creatura, il Cabaret della Svizzera italiana, il pubblico ticinese aveva riempito le platee per seguire i suoi spettacoli con così tanta partecipazione e entusiasmo: dalle palestre alle sale parrocchiali, dalle scuole alle sale polivalenti agli spazi più autorevoli (teatri veri) fino ad entrare, dopo aver setacciato tutto il territorio, in tutte le case grazie alla radio e alla televisione.
Renato aveva compiuto 86 anni lo scorso mese di agosto dopo una vita esemplare, inserita nelle pieghe più profonde del tessuto sociale ticinese che aveva imparato a conoscere (e a riconoscere) benissimo in tutte le sue manifestazioni. Non solo in virtù di una lunga esperienza come insegnante nella scuola pubblica, ma anche grazie al suo impegno civico a cui, dal 1976 fino al 2006, si è andata a sommare la trentennale stagione creativa e gloriosa con e per il Cabaret della Svizzera italiana.
Se fosse vissuto ai tempi della nascita della Commedia nell’antica Grecia, Agostinetti avrebbe fatto a gara con Aristofane e Menandro per la migliore farsa satirica. E molto probabilmente avrebbe pure avuto la meglio grazie al suo straordinario talento. Ha sempre avuto un occhio attento rivolto alla nostra società, a una provincia che non riesce a crescere abbastanza e a distanziarsi da piccinerie di bottega, ad allontanarsi da estenuanti faide partitiche, quando invece potrebbe dare un bel segnale di maturità nel nome del buonsenso per provare a costruire un futuro accettabile. In tal senso, ci piacerebbe poterci permettere di dirgli che «la tua lezione, caro Renato, ci insegnava a non prenderci troppo sul serio, lasciandoci intendere, con il sorriso della derisione, fatta in modo intelligente, elegante, civile e rispettoso, che si possono intravvedere altre direzioni per poi scegliere la giusta via».
Gli spettacoli del Cabaret si sono subito rivelati originali. I suoi testi, sempre graffianti, riuscivano a strappare risate e a coinvolgere le più sensibili istanze della nostra realtà sociale.
Su queste pagine, grazie all’illuminante curiosità dell’allora caporedattrice di «Azione» Luciana Caglio, nel marzo del 1988 gli avevamo dedicato un primo articolo dopo aver visto IdenTICHitt e scrivevamo: «Pubblico stoico quello che ha riempito sabato scorso la platea del Palacongressi di Muralto per assistere al Cabaret della Svizzera italiana di Renato Agostinetti. Stoico e meritevole d’un premio supplementare, perché uscire per andare a teatro con la finale di Sanremo e con la seconda manche dello speciale olimpico alla TV ci vuole proprio tutta!». Con il ritmo binario fra sketch e canzone, i quattro «Pipistrelli» (un omaggio evidente ai celebri «Gufi» milanesi) punzecchiavano coraggiosamente l’allora Monsignore, «ammalato di CL-lulite», ma anche il socialismo assente e i paradossi della stampa ticinese con l’aggiunta di una feroce parodia sull’esercito.
Abbiamo continuato a seguire gli spettacoli del Cabaret praticamente fino all’ultimo del 2006 (Konfederatti) e ne siamo sempre usciti con la soddisfazione di aver visto un ritratto fedele della nostra realtà tradotta nello sberleffo del guitto: un personaggio storicamente utile al potere per migliorarsi.
Ma, ahimè, vorremmo ancora potergli dire: «Vedi Renato, siamo sinceramente addolorati di non averti più fra noi. Avresti potuto ancora seminare un po’ di satira e ironia, una lezione che purtroppo non ci sembra che qualcuno abbia ancora imparato».