La prospettiva bramantesca

by Claudia

E così, un tardo pomeriggio di settembre inoltrato con quel sapore di fine estate dovuto forse molto dalla luce e dall’odore dell’aria, come l’inizio di un verso di una canzone di Jannacci, «cammino per Milano». In via Torino, tra la folla, salvandomi con lo sguardo verso squarci di azzurro nel cielo coperto di nuvole stirate dal vento. In due minuti neanche, provenendo da piazza del Duomo, sono all’altezza di Santa Maria presso San Satiro. Una chiesetta a cui si può benissimo non far caso e spesso sfugge visto che è un po’ arretrata – e per questo, a dipendenza dell’ora, più o meno nascosta dai passanti preda dello shopping – rispetto a via Torino. La prima volta, anni fa, avevo sbagliato chiesa. Ero entrato, a colpo sicuro, dentro il più appariscente Tempio di San Sebastiano qui vicino, confuso per via dell’associazione mentale balorda con il tempietto romano del Bramante.

Un barbone in erba dimora prima del cancello d’entrata. In ombra, sulla facciata, si legge in maiuscolo, Divo Satyro. Spingo la porta, quattro o cinque passi sul pavimento a rombi ed ecco davanti «il mirabile artificio» come i duchi di Milano avevano definito la prospettiva illusionistica bramantesca. Spettacolare illusione del coro e abside realizzata da Donato di Angelo di Antonio di Renzo da Farneta detto il Bramante (1444-1514), intorno al 1483. Prodezza rinascimentale dell’architetto nato a Fermignano, vicino a Urbino, e morto a Roma dove ci sono tre suoi capolavori: tempietto, chiostro, scale elicoidali. Per qualche passo, tra l’odore di incenso e visitatori disorientati, infilando lo sguardo sotto la prima arcata della navata destra, il gioco della finta prospettiva del soffitto a cassettoni e del coro con pilastri a candelabre ancora regge. Dopo quindici passi, sbirciando tra gli archi della navata, la messa in scena incomincia a scemare e la meraviglia, per l’abside costruita alla perfezione solo per il nostro sguardo un attimo fa, sboccia di colpo. La cupola vera che bagna di luce lo spazio appena prima, aiuta molto a trarre in inganno: una fuga prospettica di quasi dieci metri simulata in cento centimetri. Allo stesso tempo, lo spettatore, vorrebbe quasi tornare subito indietro per ritrovare la magia di questo illusionismo prospettico.

Tra finzione e realtà esito e rimango qui imbambolato, in bilico, tra «lo spazio costruito e quello rappresentato» come osserva Arnaldo Bruschi tra le milleenovantotto pagine di Bramante architetto (1969). Uno strato di stucco a base di gesso è stato utilizzato per l’immaginaria volta a botte con i cassettoni in bassorilievo, adornati di rosoni, rosette, rose. Ispirata, a quanto pare, da un affresco di Melozzo da Forlì intitolato Sisto IV nomina Bartolomeo Platina prefetto della Biblioteca vaticana (1477). Infatti la cromia originaria, le cui tracce vengono alla luce in occasione del restauro terminato nel gennaio 1987, era foglie d’oro e azzurrite come nella volta di quell’affresco. Mentre l’atmosfera della prospettiva ricorda quella rappresentata da Piero della Francesca nella straordinaria Pala Montefeltro (1472-1474). Nota anche come Pala di Brera, per la sua collocazione attuale alla Pinacoteca di Brera dopo essere stata, fino al 1811, sopra l’altare maggiore della chiesa di San Bernardino a Urbino. La conchiglia di San Giacomo, dove nel quadro è appeso il memorabile uovo sospeso sopra la testa della Madonna, ritorna anche qui, in doppia veste, con le capesante incavate nel muro dietro all’altare.

Va da sé che l’affresco dell’altare qui e quello sopra del lunettone, passano in secondo piano come tutto il resto della chiesa, messo in ombra dalla magnifica fatamorgana architettonica. Da vicino, sono degni di nota i fregi dorati della trabeazione e le decorazioni a candelabre dei pilastri ottenuti con piastrelle di terracotta sovrapposte. Però vorrei tornare allo stato iniziale di inebetimento per il meraviglioso miraggio costruito ad arte. Una mamma è seduta con la sua bambina. Altri visitatori, increduli, fanno su e giù e quasi non si danno pace per l’abside che appare e poi svanisce man mano che ci si avvicina. Tornato alla prospettiva illusionistica bramantesca, inventata per mancanza di spazio in via Falcone, mi sembra quasi che lì, in quello spazio galleggiante e inesistente, il dolore perduto si integri con il desiderio rinato.

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