La lingua francese possiede un aggettivo che l’italiano non conosce: nombriliste, per il quale proponiamo la traduzione «ombelicocentrico». La parola non esiste (non ancora), ma il significato è molto chiaro: indica chi si concentra solo su sé stesso, credendosi – come cantava Jovanotti – l’«ombelico del mondo».
Scartabellando tra i dizionari abbiamo scoperto che in realtà anche in italiano c’è un termine che rinvia al medesimo concetto, ma in chiave mistica: onfaloscopia – dal greco onfalo (ombelico) e scopia (osservazione) – che indica la contemplazione del proprio ombelico come aiuto alla meditazione.
Perdonate la verbosa premessa, ma quando nei giorni scorsi ho scoperto, quasi per caso, che da inizio settembre alcuni Paesi del Sahara (Mali, Niger, Ciad) sono sommersi dalle inondazioni ho pensato che i nostri media sono «ombelicocentrici» e non sanno guardare al di là del proprio ristretto raggio d’interesse simbolico. L’America, lontana 7 mila chilometri, è percepita vicina; l’Africa, che dista neanche 150 km dall’Europa, resta un pianeta alieno privo di interesse.
Ci inquietano, giustamente, le emergenze in Emilia Romagna così come in Austria e nell’Est dell’Europa, che hanno causato morti e migliaia di sfollati. Ma scommetto che di quest’iconica notizia e della sua tragica contabilità (oltre mille i decessi, e 3 milioni di persone sfollate) pochi erano e sono al corrente. Eppure, dovremmo balzare sulle sedie: il Sahara nel nostro immaginario rappresenta il deserto per antonomasia, la quintessenza dell’arsura sterminatrice. Se c’è una prova lapalissiana del cambiamento climatico, sono i Paesi del deserto sommersi dall’acqua di queste settimane. Certo, questa è anche la stagione delle piogge, ma così abbondanti non si erano mai viste da almeno quattro decenni.
I video pubblicati online dal settimanale «Jeune Afrique» raccontano storie strazianti: nel crollo di una moschea e di alcune case a Zinder, nel nord del Niger, sono morti quattrodici bambini; 411 mila ettari di campi agricoli sono stati inondati, molti ospedali non possono assistere le vittime perché resi inagibili dall’acqua. Nello stesso Paese migliaia di case sono state sommerse dal rapido innalzamento del livello dell’acqua causato dallo scoppio della diga di Alau, sul fiume Ngadda. «Disastri a cascata, commenta la «Jeune Afrique», che stanno causando gravi perdite umane ed economiche, in particolare per l’agricoltura. Questi record, che potrebbero diventare la norma con l’accelerazione del riscaldamento globale, confermano le proiezioni fatte dal Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico nello scenario basato su un riscaldamento globale di +1,5°C».
«Le forti piogge nello Stato di Borno hanno lasciato centinaia di migliaia di bambine e bambini senza riparo, acqua pulita, cibo, assistenza sanitaria e istruzione, ed esponendoli a un rischio ancora più grande di contrarre malattie come il colera trasmesse dall’acqua o da altri vettori», ha dichiarato Save the Children.
Succede vicino a casa nostra, dopo un’estate inaugurata dalla tragedia climatica della Vallemaggia e del Moesano, ma sembra invisibile ai più anche se le pazzie del maltempo accomunano Paesi ricchi e Paesi poveri, fermo restando che per questi ultimi i mezzi per uscirne sono molto più ridotti.
Non stupisce, allora, che i giovani si sentano oppressi dall’ecoansia: pare che il 39% di loro sostenga di non voler fare figli per non lasciarli in balia di un mondo rovinato dall’uomo. Un’altra significativa parte della popolazione, invece, non teme le catastrofi, al contrario le nega, ritenendo gli allarmi climatici la più immensa bugia dei nostri tempi. Hanno il paraocchi nel cervello. Se non vedono le inondazioni di casa propria quando mai si accorgeranno di quelle della «lontanissima» Africa?