Luchino Visconti attraverso le sue lettere

by Claudia

Il regista visto da vicino grazie ad un primo volume con i suoi scritti a cura di Caterina d’Amico e Alessandra Favino

«Ciò mi conferma nella già radicata convinzione che ogni briciolo di libertà di cui si riesce a godere nel nostro paese non lo si deve ai governanti, e tanto meno ai governanti della sua mentalità (che francamente ci si chiede come mai si trovino ad occupare posti di così grande responsabilità), ma alla vigilanza, alla resistenza, alla lotta dell’opposizione e dell’opinione pubblica.»

Chi scrive queste dure e coraggiose parole al Ministro italiano del Turismo e Spettacolo, Alberto Folchi (sottosegretario alla presidenza nel governo democristiano-missino Tambroni, quello che propose la famosa legge elettorale «truffa», oggi tornata di moda), è il regista Luchino Visconti, pesantemente criticato dall’esponente democristiano per il film Rocco e i suoi fratelli (1960) che raccontava una diversa storia di vita contemporanea, l’altra faccia del boom economico che travolge una famiglia di immigrati della Bassa-Italia a Milano.

Il film di Visconti vinse un consolatorio Premio speciale della giuria del Festival di Venezia ma ebbe un enorme successo di pubblico («il più grande incasso italiano degli ultimi tempi dopo la Dolce vita»), nonostante le mutilazioni di molte scene imposte dalla censura e le critiche feroci – alla «prima» al Cinema Odeon di Milano, c’era chi apostrofava il regista dandogli del traditore della sua classe sociale. Siamo nel 1961, e non sono pochi quelli che non digeriscono che il conte Visconti sia iscritto al Partito comunista dal ’46. Ma Visconti nel frattempo realizza film come Ossessione, La terra trema, Senso Bellissima che gli danno fama mondiale, conteso dalle piazze teatralmente più aristocratiche del mondo. Alla Scala contribuisce come Pigmalione a creare il «mito Callas» con cinque allestimenti leggendari (Vestale, Sonnambula, Traviata, Anna Bolena e Ifigenia); a Parigi la sua Locandiera di Goldoni fa epoca, tanto che attori e drammaturghi fanno la fila per recitare con lui; Londra lo reclama – vi debutterà allestendo al Covent Garden il Don Carlo di Verdi.

Questa lettera è una delle ultime fra le settecento che formano il primo volume dell’Epistolario di Visconti (1920-61), a cura di Caterina d’Amico e Alessandra Favino, pubblicato in seno all’Edizione Nazionale delle opere di Visconti dalla Cineteca di Bologna. Sintetizza l’inflessibile determinazione di Visconti nel difendere il proprio lavoro e quello dei suoi collaboratori, soprattutto davanti alla conclamata ignoranza di politici e organizzatori che s’arrogavano giudizi spesso frutto di malafede o d’ignoranza. Visconti era capace di scelte clamorose, come rifiutare l’inaugurazione della Scala sovvenzionata dallo stato per protesta contro atteggiamenti politici governativi che non condivideva. Di più, lui milanese melomane chiuse per un lungo periodo con la Scala non avendo dimenticato che il Sovrintendente Antonio Ghiringhelli aveva stolidamente criticato il grande costumista Piero Tosi in Sonnambula (in verità chiuse l’anno seguente dopo la leggendaria Anna Bolena e Ifigenia in Tauride), critica alla quale aveva replicato apostrofando pesantemente il «boss» davanti a tutti i lavoratori del teatro. La pausa con la Scala significò fortuna per il nascente Festival di Spoleto, dove Visconti trionferà con Macbeth e il Duca d’Alba, dimostrando la sua magia, cioè che era capace di far recitare sconosciuti e divi in un tutt’uno di altissimo livello.

Visconti era un rabdomante e una calamita della genialità altrui, perché era il «talento» quello che faceva la differenza, soprattutto nella prosa, con le compagnie tradizionali dove il repertorio era poco adagiato sui gusti del pubblico piccolo-borghese. Il regista difendeva tutti i suoi collaboratori fino alla morte (dopo avergli chiesto quasi l’impossibile), assistenti dal futuro radioso come Franco Zeffirelli, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, scenografi e costumisti come Danilo Donati, Marcel Escoffier, Lila de Nobili, Filippo Sanjust, Mario Garbuglia. Seguiva e interveniva in tutte le fasi, rispettato e ammirato da autori del calibro di Arthur Miller, Jean Cocteau, Tennesse Williams, Camus, Testori – lasciando i panni sporchi e le violenze verbali all’interno del complesso «mondo» di collaboratori che gli gravitava attorno.

Molto spesso Visconti metteva in un progetto in cui credeva soldi di tasca propria, come per la Compagnia formata con Lilla Brignone e Paolo Stoppa: l’ideale esclusivamente artistico veniva dalla profonda «fiducia nel valore del teatro e nella sua importanza per la società»; teatro come «necessità pubblica e coscienza di vita popolare, oltreché fonte di vita per tutta la vasta categoria di lavoratori.»

Per l’aristocratico, comunista e omosessuale Visconti il lavoro fu il riscatto da mille condizionamenti. Qualche volta ottenne riconoscimenti più preziosi di premi e targhe, come la lettera dei 685 operai licenziati delle officine meccaniche italiane di Reggio Emilia, che lo ringraziavano per aver dato un’immagine vera del lavoro nella Terra trema: la sua versione dei Malavoglia di Verga, metafora del Dopoguerra dove «la terra trema davanti all’ingordigia e alla boria, all’ipocrisia dei pochi», dove si comprende «che il banditismo e la prostituzione sono una conseguenza del disagio sociale.»

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