Ancora una volta la conferenza annuale delle parti sul cambiamento climatico si svolge in un Paese esportatore di petrolio. L’anno scorso la COP 28 si celebrò a Dubai, la metropoli degli Emirati Arabi Uniti che proprio ai loro sterminati giacimenti di oro nero devono la prosperità e il rilievo internazionale. Quest’anno il compito di ospitare la conferenza tocca a Baku. Nella capitale dell’Azerbaigian, lo Stato caucasico sul Mar Caspio uscito nel 1991 dal crollo dell’Unione Sovietica, che proprio sulle crescenti esportazioni di petrolio fonda i suoi programmi di sviluppo, i lavori si svolgeranno fra l’11 e il 22 novembre. Ma non è certamente per questo, almeno non solo per questo, che la COP 29 si muoverà ancora una volta in un contesto assai difficile.
Pesano sulle prospettive negoziali la drammatica situazione internazionale, la realtà di (almeno) due guerre di cui non si vede la fine e che potrebbero addirittura allargarsi, una politica energetica che non riesce a trovare il suo punto di equilibrio dopo gli scossoni dovuti al conflitto ucraino e alle sanzioni imposte alla Federazione russa. Pesa il vertiginoso aumento delle spese militari, che comprimendo i bilanci riduce la disponibilità dei Paesi più ricchi ad aiutare quelli meno dotati, secondo lo spirito dell’iniziativa diplomatica scaturita nel 1992 dal vertice di Rio de Janeiro. Si tratta di finanziare i costosissimi programmi destinati ad avvicinarsi il più possibile ai livelli di riduzione delle emissioni fissati nel 2015 dalla COP 21 di Parigi.
In altre parole l’atmosfera che il prossimo novembre accoglierà a Baku il mondo della diplomazia ambientale corrisponderà esattamente all’atmosfera malata che si vorrebbe sanare. Eppure il Governo azero, protagonista di una politica estera equidistante che non esclude buoni rapporti con l’Occidente, non esita a ricorrere alle risorse retoriche del linguaggio diplomatico. Il presidente Ilhan Aliyev dice che la scelta dell’Azerbaigian come Paese ospite della conferenza dimostra che «la comunità internazionale apprezza ciò che stiamo facendo, in particolare, nell’area dell’energia verde». Belle parole, ma che dire dei necessari limiti all’uso dei combustibili fossili, fra i quali il petrolio gioca la parte del leone?
Sul tavolo negoziale resta una realtà di fatto che non ammette discussioni: gli indici che misurano l’avvelenamento dell’atmosfera attraverso l’emissione dei gas che producono l’effetto serra, e di conseguenza il surriscaldamento del pianeta, la degenerazione del clima, lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento del livello dei mari non calano come dovrebbero. Eppure i Governi si erano impegnati a farli calare imponendo le giuste misure. Ne consegue che il fatidico punto X, oltre il quale il processo diverrebbe irreversibile, si avvicina pericolosamente. Siamo ormai sull’ultima spiaggia e i tempi sono strettissimi: bisognerebbe riprendere subito il discorso virtuoso che può ancora portare agli obiettivi fissati con l’accordo di Parigi del 2015: temperatura globale almeno un punto e mezzo inferiore ai valori che precedevano, meno di tre secoli or sono, la rivoluzione industriale.
Questo implica il passaggio graduale dall’uso dei combustibili fossili, che scaricano nell’atmosfera i loro venefici fumi, alle fonti rinnovabili di energia. Ai Paesi petroliferi, così come ai grandi produttori di carbone, il mondo chiede di fare un passo indietro. Che cosa ne pensa il presidente Aliyev, che cosa le lobby petrolifere che fin qui hanno remato contro? A quanto risulta fra gli attori della scena mondiale soltanto l’Unione europea interpreta l’emergenza climatica come un problema prioritario di sopravvivenza fra gli equilibri sconvolti del pianeta. Ma è sempre più una battaglia di retroguardia, mentre accanto ai problemi oggettivi che ostacolano queste politiche si erge da qualche tempo un dilagante scetticismo. In un mondo lacerato da mille contrapposizioni si è fatta strada anche quella che separa chi crede nella componente antropica del degrado ambientale e climatico, e dunque chiede che si intervenga, e chi sostiene che in realtà il fenomeno discende dall’avvicendarsi di cicli naturali.
Questa posizione negazionista implica che la componente antropica è irrisoria per dimensioni, e che sarà la natura a riportarci alla normalità. Dunque non servono i sacrifici che si vogliono imporre in materia di emissioni di gas a effetto serra. Va da sé che la grande industria petrolifera e quella che esalta il ruolo del carbone incoraggiano questo punto di vista. Intanto nel Pacifico si scruta con angoscia il mare che sale. A Kiribati, il piccolo Stato insulare che vede il livello dell’oceano crescere minacciosamente e dopo avere divorato le candide spiagge minaccia l’intero territorio nazionale che si estende su un gruppo di isole pianeggianti o poco elevate, si prendono le misure del caso. Infatti se nulla cambia un giorno bisognerà sloggiare, per questo si chiede all’Onu di inserire nel catalogo delle grandi emergenze la figura del profugo climatico. Sono circa centoventimila i cittadini di Kiribati ormai pronti a impersonare questa nuova categoria umana. Se nulla cambia… Alla conferenza che sta per celebrarsi sulle rive del Mar Caspio quella che forse è l’ultima parola. Si attende che il mondo, spostando l’attenzione dalle crisi che lo attanagliano per affrontare questo problema esistenziale ci dica se qualcosa possa e debba cambiare. Dopo, se anche l’ambiente sarà vittima delle guerre in corso, potrebbe essere davvero troppo tardi.