Tutto il mondo attende con ansia l’esito delle elezioni presidenziali americane di novembre. Sembra che i destini dell’umanità siano tenuti a cambiare in base alla vittoria di Donald Trump o di Kamala Harris. L’ansia è tale che le scommesse impazzano mentre si affinano le tecniche per prevedere l’esito della sfida. La nota rivista «Science» consiglia al riguardo di fidarsi delle scimmie: pare che i macachi siano capaci di stabilire chi vince e chi perde fissando le foto dei candidati. Ma vale la pena scomodare lo sguardo dei nostri predecessori nella scala evolutiva per scoprire chi sarà il prossimo inquilino/a della Casa Bianca?
Il caso delle elezioni americane illumina una delle peggiori mode della politologia e dei media attuali: personalizzare i conflitti, politici o anche bellici. Così l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è «la guerra di Vladimir Putin» e il massacro dei palestinesi sarebbe determinato solo dalla necessità di Benjamin Netanyahu di deviare l’attenzione del pubblico israeliano – e della magistratura – dal suo status di indagato per reati che comporterebbero di finire in prigione la sua brillante carriera politica. Come se i fattori strutturali dipendessero dall’umore di questo o quel leader. Ovviamente non è così. Ma questa ovvietà non è più così ovvia nell’epoca del relativismo assoluto (ci si perdonerà l’ossimoro) per cui niente è certo e soprattutto nulla è vero.
Restiamo al caso americano. Il talk of the town europeo considera che se Trump tornerà alla Casa Bianca scioglierà la Nato e/o ritirerà le truppe statunitensi dal nostro Continente in nome del mantra «rifare grande l’America», inteso come concentrarsi sulle questioni domestiche e sulla Cina in quanto attore capace di detronizzare il «numero uno» in sofferenza. È molto improbabile che accada (ci riserviamo comunque di interrogare i macachi). Meno irrealistico immaginare la versione molto leggera di questa predizione, per cui la Washington di Trump chiuderebbe alla bell’e meglio la guerra ucraina cedendo a Putin. Così come è invece probabile che Harris, se eletta, continui ad assecondare la tendenza ormai quasi ventennale della geopolitica a stelle e strisce – versione flessibile dell’America First trumpiano – che tiene conto dell’indisponibilità dell’americano medio a lanciarsi in altre guerre costose e invincibili tipo Afghanistan e Iraq.
Più utile cogliere i profondi cambiamenti che stanno accelerando il declino americano, tanto da evocare un clima di transizione dall’egemonia americana a una fase di caos, sperando non degeneri in guerra fuori tutto. Alla base, il fallimento della globalizzazione. Progetto di americanizzazione nemmeno troppo graduale del resto del pianeta, perseguito nel decennio 1991-2001, entrato in crisi l’11 settembre e abbandonato nel 2007 da Bush jr. Al centro lo scambio fra accesso di Pechino alle regole economiche dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e l’apertura non solo del mercato cinese ma dello stesso regime, che sarebbe dovuto evolvere verso il modello di liberaldemocrazia a stelle e strisce. Tesi che oggi può far sorridere, ma che Clinton prese molto sul serio. Di qui l’ammissione della Repubblica Popolare all’Omc. Ma non la transizione dalla dittatura del Partito comunista a una qualche forma di democrazia liberale.
Insieme al fallimento geopolitico, quello geoeconomico. Un effetto ineluttabile della globalizzazione – termine sufficientemente ambiguo da consentire diverse manipolazioni – è stata la delocalizzazione delle produzioni americane, la compressione dei salari e la perdita di status del ceto medio, colonna portante della società statunitense. Effetti particolarmente visibili nel Midwest, dove la «cintura della ruggine» si è espansa a gran ritmo negli ultimi anni. Per chi volesse intenderne in profondità gli effetti anche psicologici e culturali – il senso di deprivazione relativa della piccola e media borghesia, oltre che della classe operaia – è consigliabile la lettura di Elegia Americana, successo editoriale dell’attuale candidato alla vicepresidenza James David Vance.
La ferocia dello scontro Trump-Harris ha quindi molto di sociale, più che di politico-ideologico. La frattura repubblicani/democratici esprime idee inconciliabili della Nazione americana. Per certi aspetti, disegna non una Nazione divisa, ma due Nazioni. La retroazione geopolitica di questa faglia implica una crisi di credibilità della superpotenza. Il «numero uno», quale che sia, si segnala di norma per la deterrenza. Per la capacità di orientare la correlazione delle forze globale senza dover ricorrere alla guerra, comunque non a un conflitto strategico fra potenze nucleari. La guerra in Ucraina e quella in Medio Oriente evidenziano l’impotenza americana nel controllare non solo le velleità dei nemici – Russia e Iran – ma anche dei clienti presunti o reali (Ucraina e Israele). Per tacere della Nato, che ospita al suo interno Paesi filorussi o comunque opportunisti, quali Turchia, Ungheria e Slovacchia, ex grandi euroccidentali come Francia e Germania (ma in certa misura anche Italia e Spagna) che al di là della retorica non intendono favorire la disintegrazione della Russia, mentre Inghilterra, Paesi scandinavi e baltici, Polonia inclusa, la considerano scenario auspicabile.
Di fatto oggi gli Stati Uniti non contano più su veri alleati ma solo su Paesi più o meno provvisoriamente allineati con loro. Pronti a cambiare orientamento a seconda dell’andamento delle guerre e delle crisi. Prepariamoci a vivere lunghi anni di competizione senza regole. Trump e Harris possono cambiare tono, stile e qualche importante dettaglio della traiettoria americana. Non rovesciarla.