L’importanza di curare anche chi cura

Un seminario per approfondire il delicato tema della famiglia curante, di chi, in altre parole – ed è accaduto a molti di noi – si ritrova, oltre che nel proprio ruolo di destinatario e mittente affettivo, anche in quello di colei o colui che deve curare, assistere, consolare. Un doppio ruolo che, se da una parte permette alla persona colpita da malattia di circondarsi di un ambiente famigliare, dall’altra presenta sfide non indifferenti, portando con sé un importante carico di oneri. Sono questi i temi intorno a cui verterà la giornata di interventi riuniti sotto il titolo La famiglia che cura. La famiglia curata. La famiglia che si cura, organizzata dalla Fondazione di Ricerca Psico-oncologica di Lugano in collaborazione con l’Associazione Triangolo (Volontariato e assistenza per il paziente oncologico). I seminari, giunti quest’anno alla 25esima edizione, si prefiggono di affrontare «il problema della centralità della persona nelle cure, approfondendo il significato e il senso della prassi medico-sanitaria contemporanea».A intervenire a Lugano, saranno una serie di esperti di caring in ambito psico-medico, che prenderanno in esame le diverse sfaccettature legate alla cura in famiglia. In quello che vuole essere un seminario rivolto a medici, operatori sanitari e sociali, volontari e interessati, e che non si limiterà all’ambito oncologico, si affronteranno anche aspetti legati all’Alzheimer (Il paziente Alzheimer nella quotidianità della famiglia), all’autismo (Le sfide dell’autismo) e alla psichiatria (I famigliari del paziente psichiatrico).Fra gli ospiti che si alterneranno a Lugano, vi sarà anche l’oncologa pediatrica milanese Franca Fossati Bellani che, entrata come prima donna medico all’Istituto dei Tumori di Milano nel 1967, dell’oncologia pediatrica ha scritto un pezzo di storia. Lo spirito pionieristico con cui, negli anni, ha lottato per lo sviluppo di un reparto pediatrico all’interno dell’istituto milanese, le ha permesso, nell’arco di una lunga carriera, di curare oltre 5’000 pazienti, (per i quali era «la dottora») in un rapporto che andava ben al di là della mera assistenza medica. Non a caso, il titolo del libro che ha scritto insieme ad Agnese Codignola è Curare i bambini è la mia medicina (ed. Solferino).

Dottoressa Franca Fossati Bellani, nel suo intervento lei parlerà di «casa in ospedale» e «ospedale in casa», ossia di quell’interazione tra cura e famiglia che rappresenta una sorta di conquista e che l’ha vista protagonista. Ce ne può parlare?
Per prima cosa le dico che il titolo dato al mio contributo mi piace moltissimo! Seconda cosa, non credo di avere fatto nulla di particolare, se non accogliere un destino professionale che non avevo previsto, non pensavo che avrei mai lavorato nell’oncologia pediatrica. Poiché all’Istituto dei Tumori di Milano non vi era un reparto pediatrico, la mia è stata un’esperienza di tipo pionieristico, resa possibile anche dall’aiuto e dagli stimoli dei miei modelli, il professor Umberto Veronesi e il dottor Gianni Buonadonna. Quando iniziai, nel 1967, negli Stati Uniti l’oncologia pediatrica era una disciplina in nuce, mentre in Europa c’era solo il Gustave Roussy di Parigi. Oggi però purtroppo il mondo della medicina sta perdendo la rotta della medicina umanistica, cioè della medicina rivolta all’uomo e non alla malattia a causa di fattori economici, tecnologici, efficientistici e di iperspecializzazione.

In qualche modo lei ha dovuto inventarsi una realtà. Come ha fatto?
Ho tratto ispirazione dai bisogni quotidiani dei bambini, che un tempo venivano allontanati dalle famiglie e lasciati soli nelle pediatrie, come dei reclusi. Era una regola che trovavo, oltre che insensata, anche crudele, e allora ho cominciato a lasciare entrare i genitori di nascosto. Quando nell’84 con Marco Gasparini, pediatra insuperabile, creammo un reparto interamente dedicato alla pediatria oncologica, stabilimmo che doveva esserci un letto fisso per dare a un famigliare la possibilità di stare sempre accanto al piccolo paziente ammalato. In questo mi è stata di ispirazione una grande mamma, poi attiva nell’associazionismo della Lega tumori per tutta la vita, che un giorno mi disse: «Dottoressa, guardi che questo è mio figlio e io non lo posso abbandonare». Da quel messaggio così semplice io ho capito. Ma non ero la sola a pensarla così: anche il portiere dell’Istituto un giorno mi confessò che lui i famigliari dei bambini li lasciava passare anche se erano fuori orario.

Il coinvolgimento delle famiglie negli anni si è evoluto…
Il tipo di pediatria che volevo portare avanti desiderava includere assolutamente la famiglia in un senso possibilmente ampio, e questo voleva dire anche dedicarsi alle famiglie perché accettassero il compito di seguire i figli ammalati con competenza e conoscenza. Per questo negli ultimi ho fatto molte riunioni di formazione per agevolare la partecipazione dei familiari al processo di cura.

Ma cosa si intende per «spostare la casa in ospedale»?
Spostare la casa in ospedale è a mio avviso un dovere per tutte le malattie gravi con esigenze di ospedalizzazione. L’importanza terapeutica della presenza del calore umano è provata in molti ambiti, come ad esempio le patologie neonatali, ma la vediamo anche negli adulti. La casa per me ha un senso più ampio: penso a quando in ospedale abbiamo portato la scuola, il laboratorio artistico, o abbiamo cucito e cucinato, offrendo così uno squarcio di normalità. La cosa più bella è sentirsi dire dai parenti di un piccolo paziente che da noi si sentono a casa. Sono convinta dell’importanza di creare situazioni di ottimizzazione della presenza delle persone in un ambiente dove c’è un grande dolore.

La tecnologia potrà avere un ruolo in quello che chiama invece «l’ospedale in casa»?
Io credo che l’ospedale in casa in quanto tale sia un po’ un’utopia, poiché sono cambiate le condizioni economiche, sociali, abitative e culturali: è raro che in una famiglia qualcuno possa garantire la propria costante presenza a casa. Non dobbiamo dimenticare che l’ospedale in casa può comportare anche dei rischi, come la solitudine, la mancanza di una retribuzione per il curante e un sovraccarico emotivo. Per contro molto si potrà fare con i mezzi tecnologici nell’ambito del rapporto famiglia-struttura sanitaria; in Australia, per esempio, hanno cominciato prestissimo a creare le competenze in questo senso. In fondo si tratta di un’opportunità per tutti i campi.

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