«Alla fine, uno scienziato svedese che si presentò come Gunnar Öquist venne al telefono e mi disse che avevo vinto il premio Nobel per la Chimica […] risposi che non potevo crederci anche se il suo accento svedese era molto convincente». Ma fu invece così, che nel dicembre del 2009, Venki Ramakrishnan – fisico di formazione quando era un giovane studente indiano cresciuto nel Gujarat, diventato poi biologo molecolare negli Stati Uniti, dove giunse nel 1971 – sedette accanto alla principessa Vittoria, in attesa di ricevere la medaglia del Nobel da Carl Gustav XVI.
L’importanza che in questi anni stanno avendo i «medicinali a RNA» ha dato una rilevanza ancora maggiore al lavoro pionieristico di Venki Ramakrishnan, che ricevette il premio Nobel assieme a Thomas Arthur Steitz e Ada Yonath per i suoi studi sulla struttura e sulla funzione dei ribosomi. È infatti all’interno dei ribosomi che avviene qualunque tipo di sintesi proteica, anche quella – lo abbiamo appreso in anni recenti – che consente di dotare il nostro sistema immunitario degli anticorpi necessari per far fronte alle aggressioni virali. E chi, tra la fine degli anni Novanta e primi anni del decennio successivo, s’impegnò a studiare la struttura dei ribosomi – fino ad allora pressoché ignoti – compì un’impresa straordinaria, tanto più in quanto gli strumenti d’indagine erano a tal segno inadeguati, da costringere scienziati come quelli che ricevettero l’ambito premio a escogitare espedienti nuovi di giorno in giorno.
La storia di come si giunse a comprendere la struttura dei ribosomi e come essi fanno a produrre le proteine è descritta in La macchina del gene, di Venki Ramakrishnan. L’autore intreccia tre linee narrative: le sue vicende di scienziato nomade tra gli Stati Uniti, l’Inghilterra e l’Europa continentale, la competizione per decifrare la struttura dei ribosomi, e la ricostruzione storica dei contributi che alla ricerca diedero gli scienziati che lo precedettero.
I ribosomi sono una specie di crocevia della vita e fungono da collegamento tra i nostri geni e le proteine. Un gene, infatti, è un pezzetto di DNA che contiene l’informazione necessaria per produrre una determinata proteina. Sebbene gli aminoacidi siano solo di venti tipi diversi, la varietà delle proteine è molto ampia e dipende tanto dalla lunghezza della catena così come dal tipo di amminoacido. Compito dei ribosomi è proprio quello di assemblare le proteine di cui abbiamo bisogno, eseguendo le istruzioni provenienti dal DNA, pervenute loro grazie all’RNA messaggero. Nel suo schema generale, questo meccanismo era noto già nella seconda metà degli anni Sessanta, tuttavia il ribosoma non era una molecola semplice e la sua struttura intimoriva molti. Si sapeva che era composto di due unità, ma si aveva solo una vaga idea di come funzionassero.
Negli anni Ottanta divenne più chiaro il funzionamento delle due subunità di questa macchina molecolare: «La subunità piccola si lega all’mRNA contenente l’informazione genetica, mentre la subunità grande in pratica cuce insieme gli aminoacidi trasportati dal tRNA per formare una proteina». Alla fine degli anni Ottanta era chiaro che, se avessimo compreso come gli antibiotici si legano ai loro ribosomi, avremmo potuto progettare farmaci nuovi e migliori. Si trattava, pertanto, di trovare il modo di studiare dettagliatamente la morfologia dei ribosomi e il loro funzionamento in quanto macchina molecolare.
Nelle scienze della vita, la cristallografia è la disciplina che ha permesso di studiare le strutture tridimensionali delle proteine; sicché anche i ribosomi ne furono oggetto di studio. «Tuttavia – scrive Ramakrishnan – alla fine degli anni Ottanta nessuno dei cristalli si era dimostrato abbastanza buono da permettere di ricostruire la struttura atomica di una delle due subunità del ribosoma, per non parlare di tutto l’organello»; e gli sforzi prodigati da Ramakrishnan, passando da un laboratorio all’altro, qua e là dell’Atlantico, furono tesi proprio a procurarsi un cristallo di ribosoma a tal segno definito, da permettere l’esame di ogni atomo della molecola.
In quegli stessi anni, aveva cominciato a essere presa sul serio l’idea del «mondo a RNA» perché si era scoperto che, miliardi di anni or sono, i mattoncini costituenti l’RNA potevano essere ottenuti da sostanze chimiche semplici: «il ribosoma – congetturava Ramakrishnan – poteva essere comparso in un mondo dominato dall’RNA, ma poiché sapeva produrre proteine divenne una sorta di cavallo di troia».
Mentre erano in corso queste riflessioni sulla vita prima della comparsa del DNA – nello sviluppo delle quali ebbe un rilievo particolare il biologo statunitense Carl Woese –, anche l’attività pratica dei cristallografi continuò a perfezionarsi, in particolare sviluppando una nuova tecnica che prevedeva la congelazione dei cristalli allo scopo di conferir loro la stabilità necessaria per lo studio dettagliato.
In competizione per ottenere il premio Nobel, a metà degli anni Novanta vari centri di ricerca avevano individuato il meccanismo di base di come funzionano le due parti che costituiscono la macchina dei ribosomi: «Se il compito centrale della subunità 50S era catalizzare l’unione degli aminoacidi uno dopo l’altro per formare una catena proteica, il lavoro corrispondente svolto dalla subunità 30S era assicurarsi che il codice genetico dell’mRNA venisse letto e tradotto in modo accurato». La conoscenza precisa del funzionamento delle due strutture della macchina ribosomiale poneva le condizioni grazie alle quali le aziende farmaceutiche avrebbero potuto progettare nuovi antibiotici.
La macchina del gene non è un saggio scientifico e non ne ha l’oggettività: è la narrazione in prima persona di uno scienziato in corsa per il premio Nobel, casualmente messosi a studiare il ribosoma. La traiettoria delle conquiste scientifiche ottenute in quest’ambito dalla metà degli anni Ottanta sino al 2009 avrebbe potuto essere raccontata in un altro modo dai due altri scienziati che ottennero il prestigioso premio assieme a Ramakrishnan, ma se il libro è di lettura appassionante è anche perché la descrizione delle scoperte non è mai disgiunta da quella delle forti emozioni provate di fronte ai successi e alle sconfitte; alle sempre nuove strategie per trovare soluzioni tecniche innovative, ma anche quelle per far fronte al proprio stato di delusione per i fallimenti. Il racconto di Ramakrishnan descrive scienziati in competizione, eppure il premio esteso a tutt’e tre significa che l’odierna impresa scientifica è intrinsecamente collettiva.
Rispetto agli anni in cui operò Ramakrishnan, la microscopia elettronica ha fatto enormi progressi: «È in atto una nuova rivoluzione nella visualizzazione delle molecole biologiche e infatti quasi ogni settimana vengono descritte nuove strutture straordinarie». I vaccini a mRNA in corso di sviluppo sono stati resi possibili proprio grazie alla conoscenza dettagliata di una struttura tra le più importanti contenuta nelle nostre cellule: il ribosoma, ponendoci nella condizione di «editare» le proteine prodotte all’interno delle nostre cellule – in pratica affiancando il lavoro del DNA.