Per giorni le cronache dei media hanno cercato di fare luce su un efferato triplice delitto. Riccardo C. ha ucciso i suoi genitori e il fratellino a Paderno Dugnano, un comune alle porte di Milano: dopo aver atteso che si addormentassero, ha prima infierito sul fratello, che dormiva in camera con lui, e poi in successione ha accoltellato mamma e papà che erano arrivati in soccorso.
L’omicidio commesso da minorenni in età adolescenziale anche se, fortunatamente, non è caratterizzato da una particolare rilevanza statistica, presenta comunque sempre degli aspetti inquietanti e allarmanti che rendono tale fenomeno degno di particolare attenzione. Creano non solo perplessità, ma spesso sgomento, il carattere di violenza gratuita che tali atti ricoprono nella loro esecuzione materiale; ci lascia inoltre interdetti la frequente mancanza di un movente, la previsione di una vittima che spesso è persona conosciuta. E non solo; nella maggior parte dei casi si tratta di persone con cui è esistita una relazione a carattere affettivo o, inoltre, come nel caso di Paderno, una stretta relazione di parentela.
Ma qui vogliamo affrontare il problema che riguarda il comportamento dei media, la loro ansia di trovare subito una risposta di fronte all’efferatezza. Dopo aver descritto, possibilmente con tutti i particolari più truci, la ferocia del delitto, c’è la necessità di interpellare subito l’esperto. Psicologi e terapeuti di chiara fama, ma anche scrittori, degni di variabile stima, esercitano la loro scienza su questa vittima, senza averci scambiato nemmeno uno sguardo: le radio, i giornali, le televisioni hanno bisogno di essere rassicurati con una spiegazione, una qualsiasi. Per non parlare della Rete, dove chiunque possiede la chiave del mistero.
Lo psicoterapeuta di grido sostiene che l’unico modo per comprendere questo tipo di disagi è che «non dobbiamo mai smettere di dare voce alle emozioni anche più disturbanti che hanno i ragazzi. Oggi abbiamo più che mai la necessità di partire da questa terribile vicenda per parlarne e fare in modo che i figli esprimano il proprio pensiero sul gesto e anche lasciarli dire delle cose che ci possano disturbare e non vorremmo sentire». Lo psichiatra famoso in tv è più tranchant: «Prendiamo atto del disfacimento del nostro mondo, del disfacimento della famiglia. Lo dico da trent’anni. E mi sento rispondere che sono il disfattista, che sono il pessimista, che non capisco niente, che bisogna guardare il bicchiere mezzo pieno. Ma davvero c’è qualcuno, compreso il ministro della Famiglia, che dica che esiste ancora la famiglia?». Lo psicologo degli adolescenti dice che la violenza è curabile, anche se «il male non risparmia nessuno, non ha età e non ha sesso. Chiunque, improvvisamente, può esserne sedotto e metterlo in atto. Ragazze e ragazzi nella primavera della vita, spesso provenienti da famiglie solide e con un buon livello di istruzione, che si macchiano con crimini e delitti». La scrittrice di successo non si tira indietro, tutta colpa di internet: «Ma se un bambino e un ragazzo non ha avuto altro nutrimento che la rete e dunque, a dieci anni di età, ha già assistito a un numero incredibile di omicidi, sparatorie, atti efferati come si può essere così leggeri da pensare che il cervello non assorba e rielabori costantemente questi contenuti? Il cervello, infatti, non è molto diverso da una spugna, assorbe e quando si spreme, se non è stata fatta un’opera di contenimento, esce ciò che ha assorbito».
I media hanno le loro esigenze, ma qual è l’esigenza prima di un terapeuta, di uno scrittore, di un intellettuale? È più importante comprendere o spiegare senza aver compreso? Come si può dare un giudizio «a caldo» fuori da un contesto clinico di storie che non si conoscono? La comprensione è fatta di ascolto, empatia, pietas, intuito e silenzio. Ci sarebbe anche una ragione deontologica che suggerirebbe una forma di pudore nei confronti delle famiglie coinvolte, spesso colpevolizzate da commenti affrettati e approssimativi.
Qualsiasi tentativo di spiegazione «scientifica» s’infrange contro il fatto dell’orrore. Non vi è sociologia o psicologia che possa rendere ragione del fatto a cui si possa ridurlo. Queste prassi, di fronte a simili fatti, sono chiacchiere consolatorie.
L’evento ha un suo scandalo che è irriducibile alla spiegazione. Dovrebbe valere sempre la vecchia regola di Ludwig Wittgenstein: «Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere».