Epica e romanticismo di Horizon
«Sono deciso a completare quel che ancora manca». L’ha affermato Kevin Costner presentando le prime due parti di Horizon: an American Saga fuori concorso nell’ultimo giorno dell’81° Mostra del cinema di Venezia. Dopo la deludente uscita in sala del primo capitolo (ora già in dvd, oltre che su varie piattaforme) dell’ambizioso progetto articolato in quattro imponenti parti, il resto dell’opera ha rischiato di restare bloccato. Le proiezioni veneziane, accolte molto calorosamente dal pubblico, potrebbero rilanciare le sorti del secondo segmento in vista di un’uscita cinematografica e incoraggiare l’attore e regista a proseguire le riprese del terzo capitolo, per completare un lavoro nel quale sta investendo anche i propri risparmi. Si tratta di un colossal western dal sapore senza tempo, che torna ai fondamentali, al genere da cui deriva tanto cinema americano (dall’azione all’avventura al road-movie), e alle origini di una Nazione. Non è un caso che i primi episodi abbiano un prologo nel 1859 e siano ambientati nel 1863, in piena Guerra di secessione, mentre Horizon rappresenta la terra promessa, la città che non c’è ancora e già richiama pionieri anche grazie a un’abile strategia pubblicitaria. In questi tratti si intuisce l’attualità del progetto di Costner, uno degli ultimi portabandiera di un cinema classico, romantico e puro, forse l’autore più vicino a Clint Eastwood che ci sia e non è un caso che insieme abbiamo realizzato quel gioiello di Un mondo perfetto (1993).
Il cineasta di Balla coi lupi ha costruito, con i cosceneggiatori Jon Baird e Mark Kasdan, un intreccio di storie destinate a convergere nella Pedro Valley in Arizona, lungo le anse di un fiume dove nelle prime inquadrature si piantano picchetti per delimitare un insediamento senza notare le tombe poste sull’altra sponda. Sono territori letteralmente sconfinati, zone di caccia dei nativi americani, con i quali nascerà l’inevitabile conflitto. Dopo la prima distruttiva scorribanda notturna degli apache, alla quale scampano solo Frances (Sienna Miller) e la figlia Lizzie, Costner prende le cose alla larga. La prima parte ha un respiro ampio ma una narrazione frammentata nell’alternarsi rapido delle diverse storie e dei diversi percorsi, la seconda ha un ritmo più disteso e permette di entrare più in sintonia con i tanti personaggi, sembrando più ccoinvolgente e accessibile. Dal centro si allargano via via cerchi che assorbono molte storie e diverse motivazioni di chi parte e viaggia verso ovest. Il regista non si perde in citazioni, ma guarda ai grandissimi, a John Ford o Howard Hawks, e si ritaglia il ruolo del cowboy Hayes, venuto dal nulla, senza legami, dalla mira infallibile e in fondo romantico, un po’ alla Eastwood, insomma.
Siamo durante la guerra civile, proprio come ne I dannati di Roberto Minervini uscito in sala nei mesi scorsi dopo il passaggio al Festival di Cannes, e come là, oltre all’anima nordista e unionista dei soldati che seguono i pionieri, quasi non si vedono gli indiani che assaltano, restando quasi fantasmi. Costner mostra però i nativi nelle loro vite, incerti e divisi su come affrontare i nuovi venuti, subito consapevoli che si tratti di un punto di non ritorno.
“Horizon” parla molto dell’oggi, del sogno di una vita migliore, del migrare, del ricominciare da zero, dello sfidare la natura e delle contese per la terra. Significativo che i pionieri siano migranti veri e propri (e comparirà pure una comunità cinese che sarà messa ai margini prima di trovare il proprio spazio) che vedono solo Horizon e non le tombe e le paure che dovrebbero incutere, proprio come chi oggi rischia la vita per attraversare il Mediterraneo o il confine, poco lontano dall’azione del film, tra Messico e Stati Uniti. In questo senso la saga è anti-trumpiana e contro il pensiero diffuso che muri, barriere o terrore possano bloccare i flussi di chi si mette in viaggio per inseguire un suo orizzonte.
Altra componente importante sono le donne, tante volte solo comprimarie nel western, che diventano il motore delle storie nel “Capitolo 2”. Su tutte c’è Frances, interpretata una Sienna Miller dal fascino ormai maturo, dura e sofisticata nel ruolo deciso e dolente della vedova che non indietreggia e anzi punta a ricostruire. La preadolescente Lizzie acquista spessore nel seguito della vicenda, stringe amicizia con una coetanea apache e fa immaginare che si possa instaurare un rapporto tra le parti, non solo confliggere, un po’ come in “Balla coi lupi”. Ancora c’è la viziata borghese Juliette Proctor in viaggio dal Kansas con il marito disegnatore, che nel secondo capitolo si trasforma e diventa personaggio chiave. Meno presente rispetto alla prima parte è la disinvolta Marigold (Abbey Lee), che aveva sedotto Hayes, poi costretta a fuggire e nascondersi. “Horizon” è una vera saga americana, un film di epica e romanticismo, di questioni eterne, opera di un uomo di cinema deciso a realizzare ciò che crede nel modo in cui crede: se Costner rischia di sbagliare, è solo per eccesso.