Nel terribile anniversario del 7 ottobre, proprio oggi, è inevitabile tracciare dei bilanci. Sul piano umanitario non possono esserci dubbi, è una tragedia immane, tale da superare per il numero di vittime molte altre guerre che insanguinarono il Medio Oriente. In quanto ai bilanci militari, e politici, questi invece cambiano continuamente. Siamo in una fase di rilancio delle fortune di Benjamin Netanyahu. Che ci piaccia o no, gli ultimi successi spettacolari dell’intelligence e dell’esercito israeliano lo stanno rafforzando. Di sicuro, in patria. All’estero: si vedrà.
I bilanci sono soggetti a revisione continua, e lo saranno anche molti anni dopo la fine del conflitto, qualsiasi forma prenda questa fine. Proclamare vincitori e vinti quando un conflitto è in corso è presuntuoso e soprattutto imprudente. La storia si prende beffe di noi, nel lungo periodo può ribaltare ciò che oggi ci sembra una certezza.
Perciò è utile riflettere su un precedente-chiave, l’ultima guerra che ebbe inizio con un attacco arabo contro Israele, e lo colse gravemente impreparato: quella dello Yom Kippur del 1973. È una guerra carica di simbolismo in Medio Oriente. Non a caso Hamas decise di lanciare la sua carneficina l’anno scorso quasi esattamente nel cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom Kippur. Ma proprio il bilancio finale di quel conflitto fu soggetto a profonde revisioni e correzioni radicali col passare degli anni.
L’errore di Israele
Il conflitto arabo-israeliano combattuto dal 6 al 25 ottobre del 1973 prese il nome dalla festività ebraica durante la quale ebbe inizio. Gli eserciti della coalizione araba guidata da Egitto e Siria (cui parteciparono contingenti da Arabia, Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Giordania, Iraq, Sudan, e perfino da Cuba) inizialmente ebbero la meglio anche grazie all’effetto-sorpresa legato alla festa religiosa. Ma al di là di questo effetto-sorpresa, le cause profonde dell’impreparazione israeliana furono poi attribuite a un eccessivo senso di superiorità, a sua volta un lascito avvelenato della vittoria-lampo di Tel Aviv nella Guerra dei Sei Giorni (1967). Nell’autunno 1973 dopo un panico iniziale le forze israeliane riuscirono a recuperare. Sul piano strettamente militare, superata l’iniziale débâcle le forze armate di Israele ebbero la meglio, anche grazie alle forniture di armi americane, e strapparono una vittoria «tecnica».
La percezione iniziale fu molto diversa, però. In molte parti del mondo lo Yom Kippur 1973 fu impresso nella memoria collettiva come un episodio di sconfitta e arretramento per Israele e per i suoi alleati in Occidente. Visti i successi dell’offensiva iniziale, l’effetto-sorpresa che aveva spiazzato gli israeliani, la guerra fu vissuta come un riscatto da parte della coalizione araba dopo l’umiliazione subita in quella del 1967. Il Medio Oriente si confermò come un epicentro e una posta in gioco della guerra fredda, con la tensione ai massimi fra Stati Uniti e Unione sovietica: Mosca appoggiava la coalizione araba che si sentiva così «dalla parte giusta della storia», in una fase ascendente per l’influenza mondiale del blocco socialista.
L’arma economica
Il senso di riscatto e rivincita nel mondo arabo fu rafforzato da un’altra componente decisiva di quel conflitto: l’uso efficace dell’arma economica da parte dei produttori di petrolio, la novità più dirompente. Alcune delle conseguenze più profonde e durature dello Yom Kippur 1973 coinvolsero proprio la sfera energetica ed economica. L’Opec (cartello che rappresenta molti Paesi petroliferi) usò con un successo formidabile le sanzioni economiche razionando il greggio a diverse nazioni occidentali accusate di avere armato Israele. Il rincaro dei carburanti creò gravi difficoltà alle economie avanzate (ricordiamo le «domeniche a piedi» e altre misure di austerity in Europa).
Fin qui, si spiega perché i bilanci storici sulla guerra del 1973 assegnarono una vittoria geopolitica ed economica al mondo arabo contro Israele e i suoi sostenitori in Occidente. Quel verdetto però si rivelò effimero, non resse al logorio dei tempi. Perché al Cairo, e anche ad Amman, due vicini arabi di Israele trassero una lezione autocritica. Egitto e Giordania si convinsero che non avrebbero mai sconfitto Israele sul piano militare. Iniziarono così una dolorosa revisione strategica e diplomatica, che avrebbe portato al loro riconoscimento dello Stato d’Israele. Questo era anche il frutto di una presa di distanza nei confronti della leadership palestinese – Yasser Arafat, allora capo dell’Olp – che egiziani e giordani consideravano fallimentare.
La pace tra Egitto e Israele viene firmata a Washington il 26 marzo 1979 ed entra in vigore a tutti gli effetti nel gennaio 1980. Quella con la Giordania arriverà anch’essa, nel 1994. Da allora Israele non ha più dovuto temere attacchi militari da questi suoi due vicini. Di recente, la Giordania ha perfino contribuito alla difesa dello spazio aereo israeliano dai missili iraniani. Dal punto di vista israeliano, la lezione finale fu che almeno una parte del mondo arabo aveva seguito la logica dei rapporti di forze. Molti decenni dopo un percorso simile a quello egiziano e giordano è stato compiuto dalle potenze sunnite del Golfo e dal Marocco, con gli accordi di Abramo (2020) e con il nuovo corso del principe saudita Mohammed bin Salman.
Il problema dell’Iran
E oggi? Oggi il problema è l’Iran. Al dibattito tra i due candidati alla vicepresidenza Usa, J.D. Vance e Tim Walz, la prima domanda è stata sul Medio Oriente. Se Israele lancia un attacco preventivo contro una base iraniana dove si sviluppa l’arma nucleare, l’America deve appoggiare questa operazione oppure no? Il vice di Kamala Harris non ha risposto. Quello di Donald Trump ha detto di sì.
Nel dibattito Vance-Walz ha fatto capolino l’accordo sul nucleare iraniano che era stato raggiunto dall’Amministrazione Obama, poi cancellato dall’Amministrazione Trump.
La versione del partito democratico Usa è quella condivisa da molti europei, tanto più che l’accordo con l’Iran sul nucleare coinvolse Germania, Francia, Regno Unito, e l’Unione europea in quanto tale (più Cina e Russia). Secondo Barack Obama, Hillary Clinton, Joe Biden e Kamala Harris quell’accordo pur senza bloccarlo avrebbe rallentato di un decennio la possibilità di una «atomica islamica» nelle mani del regime di Teheran. Questo avrebbe ridotto le tensioni nell’area. Inoltre, con la levata di molte sanzioni si poteva avviare un percorso di disgelo, al termine del quale forse l’Iran sarebbe diventato meno aggressivo. Strappando quell’accordo, Trump avrebbe contribuito a rendere il Medio Oriente più instabile e pericoloso che mai.
La versione repubblicana, al contrario, descrive quell’accordo come un grave cedimento, che dava molto all’Iran e otteneva poco in cambio. Alcune di queste critiche erano peraltro condivise non solo da Israele, ma anche da molti alleati arabi dell’America, a cominciare dai sauditi: questi ultimi fra l’altro lamentavano di essere stati tagliati fuori dai negoziati di Obama, come se la minaccia nucleare iraniana non li riguardasse. Le accuse principali: quell’accordo non implicava un ridimensionamento del programma iraniano nel settore dei missili balistici (quelli che sono stati scagliati contro Israele); né obbligava l’Iran a ridurre gli attacchi terroristici delle milizie come Hezbollah e Hamas in Medio Oriente.