Paolo Mascheri racconta il rapporto padre-figlia in seguito alla scomparsa di Chiara, la moglie del protagonista
Nina ha undici anni. Il mattino è sempre di poche parole, fa colazione con gli occhi fissi su un telefilm americano. Andrea le siede accanto, per rompere il silenzio butta lì un pretestuoso «Se non ti sbrighi perdi il pullman!». Lei sale in camera sua, si veste di nero. Va in bagno e rovista tra i trucchi che furono della madre Chiara. Si passa «un leggero strato di mascara, un accenno di fard e un tocco di lucidalabbra che poi smorza con un velo di carta igienica». Esce di casa. Andrea la guarda dalla finestra: «Tiro un sospiro di sollievo egoista nel momento in cui se ne va: finalmente la sua vita è delegata alla società, al conducente dell’autobus, agli insegnanti, alle amiche. Non sono più solo, mi illudo e sento un peso levarsi dallo stomaco».
Chiara è morta da un mese, Andrea e un ex collega di lei sono gli unici a sapere che non si è trattato di un arresto cardiaco. Nella casa della campagna toscana sferzata dal grecale sono rimasti solo lui e Nina, che Chiara ha avuto da una relazione precedente. Andrea non ha tempo per il dolore, bisogna scongelare i filetti di salmone che preparerà per pranzo, quando Nina rientrerà da scuola (e che poi lei si limiterà a piluccare «con le gambe scomposte e la manica sopra il piatto», già sazia delle caramelle e delle patatine consumate durante il viaggio di ritorno).
Paolo Mascheri si disallinea dalla recente e ipertrofica produzione di romanzi sulla maternità e opta per la figura di un vedovo che si deve occupare di un’adolescente che non è sua figlia ma è come se lo fosse, avendola cresciuta sin dall’età di due anni. La sofferenza inizialmente non esplode (il romanzo si estende su 208 pagine: la frase «Perché non sei morto tu al posto della mia mamma?» arriva solo a pagina 67; le prime lacrime di Andrea a pagina 148) e resta confinata negli interstizi della quotidianità. Bisogna fare la spesa, rassettare la casa, sentire gli insegnanti di Nina, sbarcare il lunario rimettendo a nuovo il giardino di una villa in abbandono che il proprietario vuole sia «tutto fiorito, un tripudio di colori» entro la primavera. Un dolore trattenuto e rispecchiato da una provincia aretina in cui sgraziatamente convivono «un paesaggio da cartolina, ancora parzialmente intatto, ancora idealizzabile» e il parcheggio del Carrefour di Pieve al Toppo, con i suoi «cumuli di cartacce infradiciati dalla nebbia che stazionano nei posti abbandonati, e due gazze che beccano qualcosa dall’orlo di un cestino».
Una geografia lontanissima dagli stereotipi del Chiantishire (è questione cara a Mascheri sin dai tempi de Il gregario), fatta di idillio e disfacimento, istinto di conservazione e senso della fine: le foreste di conifere devastate dalla processionaria; i «rivoli di acqua sudicia che scorrono dagli uliveti nei fossi di scolo». Non c’è spazio per riflettere sul senso degli eventi, Andrea-Malpelo può solo prendere atto della loro ineluttabilità: «Penso ai muli da soma che arrancano in salita crepando senza voltarsi, senza chiedersi se esiste di meglio, fedeli al loro carico e alla loro sorte».
Salvarsi significa confinarsi entro il perimetro della materialità e delle occupazioni, in cui l’uomo può ancora illudersi che le cose siano controllabili e meno minacciose: Andrea che si spacca la schiena spostando pietre; Nina che ripassa la lezione di scienze mentre spinge il carrello nel reparto latticini; i due che si ingozzano di pici e di dolci dopo aver lasciato in fretta il funerale di Chiara. Anche se per proteggere una ragazzina dal male del Mondo non bastano certo l’acquisto di un cucciolo di maremmano o una giornata sulla spiaggia di Baratti o una notte nel più costoso hotel di San Vincenzo.
Fin qui tutto abbastanza bene. Convince il rapporto tra questo quarantenne «che lavora con le mani» e la sera legge Le braci e questa ragazzina con gli occhi perennemente sul cellulare; figure che emergono anche a causa dell’esiguità dei personaggi laterali, decisamente più sbozzati (con l’eccezione di Patrizia, sorella di Chiara).
Peccato che Paolo Mascheri non abbia voluto scommettere fino in fondo sulle proprie indubbie capacità di fissare il dettaglio memorabile, facendo cadere il protagonista in qualche improbabile eccesso didascalico (Andrea dopo aver strappato, alla fine del romanzo, il biglietto lasciato da Chiara: «Le ultime parole di una madre non arriveranno mai su questa terra alla figlia, i versi da testamento rimarranno muti. Se parleranno, lo faranno solo nella mente solitaria del vedovo. E quando non sarò più a questo mondo, chiunque aprirà questa cassaforte non ci troverà niente di quello che è accaduto quel giorno. Le prove saranno estinte. Murate per sempre nel silenzio»); lasciandosi prendere la mano da elementi simbolici un po’ scoperti (la trasformazione di un giardino come metafora di una ricostruzione esistenziale); cedendo alla tentazione di un finale edificante (in cui il ritorno del padre naturale di Nina meritava, semmai, ben altra trattazione).
Levigare troppo un oggetto, foss’anche un libro, rischia di snaturarlo.