All’opera per riparare la realtà israeliana

by Claudia

Medio Oriente, focus sulle donne ultra-ortodosse che assumono il ruolo di catalizzatrici di un cambiamento politico e sociale di cui potrebbe beneficiare l’intera società

Mentre su iniziativa di Netanyahu e del suo Governo il conflitto si allarga a macchia d’olio verso il Libano, puntando all’Iran, Israele ha affrontato il primo doloroso anniversario del 7 ottobre tra sirene, attentati e funerali. La cerimonia promossa autonomamente dalle famiglie degli ostaggi, e tenutasi in assenza di personalità politiche, ha rimarcato ulteriormente il divario tra le istituzioni e la popolazione civile, la quale subisce la linea aggressiva di leader incoscienti con sempre maggiori angoscia e preoccupazione. Se in Israele il futuro è incerto, a causa dell’escalation di violenza e delle pesanti ripercussioni sull’economia e la salute mentale dei cittadini, all’estero l’antisemitismo dilaga, complice l’esasperazione delle piazze dinnanzi all’appoggio acritico e incondizionato di molti Governi e mass media alle politiche di Netanyahu. Per trovare un barlume di speranza in uno scenario così buio si è costretti ad uscire dalle narrazioni mainstream per frugare nei vicoli laterali dove, questa volta, ci imbattiamo nelle attiviste donne provenienti dal mondo israeliano ultra-ortodosso.

Nell’immaginario collettivo laico le donne ultra-ortodosse rappresentano ancora un enigma che suscita curiosità. Da una parte l’osservatore le classifica come vittime di una società retrograda e patriarcale, ma dall’altra è sempre più evidente il loro ruolo di catalizzatrici di un cambiamento politico e sociale di cui potrebbe beneficiare anche l’intera società. Una sorta di ambivalenza caratterizza l’attivismo ultra-ortodosso femminile anche dall’interno, dove la partita si gioca tra il desiderio di appartenenza e la fedeltà all’ambiente di origine, e quello di unirsi agli altri femminismi, pur conservando la freschezza e le energie di un movimento ancora agli albori. Muovendosi con delicata padronanza su temi che vanno dalla religione alle questioni di genere, dal nazionalismo all’etnia, dalle questioni di classe alle dinamiche identitarie e di potere, le ultraortodosse dimostrano di saper sviluppare un pensiero critico e riflessivo che sfida le dicotomie e i consensi della cosiddetta «politica liberale» delle élite privilegiate. Nelle comunità di appartenenza l’attivismo si concentra in particolare sul miglioramento della condizione femminile personale e lavorativa, e sulla prevenzione e cura delle violenze sessuali, mentre si adoperano per ridurre la distanza con il resto della società ebraica in temi quali l’istruzione, il servizio militare e la memoria. Se in riferimento a questi ultimi temi si potrebbe obiettare che l’attivismo femminile ultra-ortodosso serva la causa sionista, promuovendo la cosiddetta «charediut mamlachtit», ovvero una sorta di adeguamento del mondo ultraortodosso alle norme e consuetudini statali, è pur vero che le sue esponenti si rivelano interlocutrici privilegiate delle femministe palestinesi con le quali condividono il linguaggio di minoranza tradizionalista e conservatrice, economicamente svantaggiata e relegata ai margini.

Per vederle all’opera in questo periodo dobbiamo scendere sul campo e ad un evento organizzato dal movimento della Sinistra di Fede per il trentesimo anniversario della morte del Professor Yeshayahu Leibowitz (1903-1994) alla cinemateca di Tel Aviv, incontriamo Malki Rotner, 38 anni appartenente alla comunità chassidica Belz della città di Ashdod. Pur avendo rinunciato a prendere la patente per non perdere l’affiliazione con il proprio gruppo, Rotner è uscita ampiamente dagli schemi, ha conseguito studi di storia e sociologia e si è occupata per anni dell’inserimento degli ultra-ortodossi nel mondo del lavoro e di combattere le violenze sessuali. In un’intervista dello scorso aprile per la piattaforma israeliana «Politically corret» ha definito il proprio attivismo come la creazione di un nuovo linguaggio che possa fungere da contenitore per il cambiamento che cerca di promuovere. A supporto dei valori che desidera promuovere Rotner, oratrice dall’autorevolezza armoniosa, chiama in causa le fonti bibliche e le norme di diritto ebraico, auspicando un avanzamento generale della condizione femminile che passi anche attraverso lo studio più approfondito della Torà e un maggiore coinvolgimento nel servizio divino che le vede ancora passive rispetto agli uomini. Tuttavia, proprio attraverso gli studi di genere, ha compreso che non si tratta solo di uguaglianza tra uomini e donne, bensì del fatto che intratteniamo relazioni con «gli altri» che ci circondano.

Si tratta secondo lei di un’interdipendenza positiva in quanto ha il potere di attenuare e moderare le relazioni di potere. Del resto lo stesso chassidismo Belz da cui proviene, trapiantatosi in Palestina dalla Galizia, è stato per decenni oppositore convinto dell’Israele laico e del discorso sionista religioso che, ponendo fortemente l’accento sugli elementi territoriali e temporali della redenzione, minacciano le popolazioni preesistenti. Anche il tikkun, la riparazione del mondo, è un concetto di origine chassidica e Rotner, ora più che mai, è indubbiamente mossa da una forte volontà di «riparare» la realtà che la porta ad adoperarsi instancabilmente per cercare di rendere Israele un posto migliore per tutti. Del resto, come dicono le Massime dei Padri (2,16), «non spetta a te terminare il lavoro, ma nemmeno sei libero di esonerartene».

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