Il rap ticinese ha ancora qualcosa da dire

Eleonora Antognini, nome d’arte Ele A, classe 2002, nata a Besso è considerata la nuova promessa del rap italiano. Carlotta Sisti su «Rolling Stone» l’ha definita «la nuova rapper più stimata della scena italiana (anche se è svizzera)» mentre per Neffa è la ragazza che ha portato la rivoluzione nel rap, tra l’altro con «un’attitudine al rap – sempre secondo Carlotta Sisti – in grado di far risorgere i fasti dell’old school anni 90». E non a caso Ele A è sulla mappa del documentario prodotto dalla RSI, il primo documentario digital first che racconta 30 anni di storia rap e hip hop in Ticino. Un lavoro presentato in anteprima al Lux di Massagno qualche settimana fa che ora si può facilmente trovare sul sito Play della RSI e che, lo diciamo subito, può appassionare tanto gli intenditori di musica, chi quella scena musicale dagli anni Novanta in poi l’ha vissuta, quanto chi non ne sa niente. Anzi, grazie alle potenti e vivide immagini di archivio della RSI, è affascinante non solo conoscere i protagonisti della scena di allora, ma anche ripercorrere con loro i luoghi cult dell’hip hop che rendevano Lugano, Bellinzona o Chiasso più vive e autentiche.

Ma partiamo dalle origini, dall’idea del documentario e lo facciamo con Pablo Creti, autore del lavoro che intreccia 32 interviste fatte ai rapper di ieri e di oggi (alcune verranno pubblicate a parte sul sito RSI come continuazione e materiale di approfondimento). «Lo spunto è venuto da Matteo Pelli e Lorenzo Buccella che mi hanno raccontato del concerto pazzesco al Foce dei Sangue misto nel ‘95. Era il primo gruppo rap italiano, è stato un concerto e un evento incredibile per il Ticino con la gente in fila fuori che non riusciva ad entrare. Si chiamava La grande notte rap».

Si parte da qui dunque, da quella notte e da quegli anni in cui il rap iniziava a diffondersi e a spaccare anche qui in Ticino con il sogno di avere successo in Italia. «Volevo andare a suonare a Palermo, in Sardegna, volevo stupire chi non conosceva la realtà ticinese» dice Maxi B e poi ricorda come a quei tempi dire «vengo da Lugano» aveva un che di esotico. C’era la voglia di farsi conoscere all’estero, di conquistare altri luoghi, ricorda Jay – K (classe 1979, bellinzonese, cresciuto nella scena hip hop italiana) – il Dj partito alla conquista della Svizzera, dell’Europa, dell’America e poi del mondo.

I punti di ritrovo della scena rap di quegli anni il documentario ce li racconta bene e sono i portici luganesi, l’autosilo Motta o, come dice Maxi B, classe 1974, oggi voce di Radio3i, considerato un pioniere del genere in Ticino, «davanti all’Inno». O, ancora, il Porta ticinese a Bellinzona che aggregava tutta la città. Era una scena musicale in fermento, vivace, le sue voci e i suoi protagonisti avevano qualcosa di importante da dire e avevano trovato il modo di farlo e di farsi ascoltare anche al di fuori dal confine.

Ma il documentario non vuole essere un prodotto nostalgico e per questo sin da subito alle voci old school alterna i nuovi protagonisti come Mattak (nella foto intervistato da Pablo Creti che è di spalle), classe 1994, luganese, tra i rapper più influenti del momento: «L’hai capito, sono Mattak, ehi / Porto Lugano sulla mappa, ehi / Mollami che sto andando up, fra’, uoh / Guardami, ma adesso, perché dopo il disco volo su / Sono Mattak, ehi / Porto Lugano sulla mappa, uoh». O Ele A affascinata dal mondo rap che l’ha preceduta: «Vengo da dove c’è un mare di soldi, ma niente di più, niente di / nuovo / E sempre di poco si parla al bar ed è più caldo sul viso del globo / La febbre dell’oro, yeah, ma non basta un antidolorifico / Uno shot e sei già meno timido, non ti cura, ma calmerà il sintomo / Tu hai visto mai un uomo morire ma per diventare best seller? /(Yeah)».

Pablo Creti ci spiega il suo intento. «Ci tenevo che il documentario non evocasse soltanto il passato. Certo, però, dagli anni Novanta in poi in Ticino si è mosso qualcosa di importante sulla scena musicale del rap, c’è stato un momento in cui questo genere ha preso davvero piede, c’era un gruppetto di persone che il rap lo facevano bene senza farsi trasportare dalle mode del momento ma tenendo fede al rap old school, con le punch line, le rime fatte bene. Ed era giusto evocarlo, dargli spazio ma andare anche oltre perché oggi c’è un seguito notevole che propone cose nuove ma si rifä anche a chi c’è stato prima».

Ele A ad esempio, veste come i rapper degli anni Novanta con il maglione della Kangol, i pantaloni larghi, l’anello doppio, ha ripreso il look di quegli anni.

E se il look è importante, un segno distintivo, come dicono due ragazzini intervistati dall’allora TSI nel 1994, è il linguaggio, quello che il rap ha da dire: «Il rap ha qualcosa di giusto, di massiccio qualcosa che le altre musiche non hanno, esprime qualcosa» e lo fa oggi come allora. Maxi B nel 2012 diceva: «L’arte del rap è dare voce a chi voce non ha / L’arte del rap è intrattenere, educare, è una chance / L’arte del rap è fare il rap, non fare la star / L’arte del rap è nel coraggio della verità / La gente vera vuole artisti veri. Sempre».

Forse i giovani rapper di oggi hanno qualche difficoltà in più rispetto a chi è stato pioniere e ha potuto inventare qualcosa di nuovo. Senza contare l’ipervelocità dei social, come Aki Aki, rapper ticinese di origini serbe, ha raccontato a Pablo Creti: «Per noi oggi è un casino: o ci omologhiamo o non esistiamo. Mi ritrovo con gli altri rapper che ogni giorno su Tik ok pubblicano una canzone. Non è possibile, non ce la si fa è tutto troppo veloce». / Red.

Related posts

Shani, contro l’ostracismo culturale

Echi di un passato tuttora presente

Una nuova era per il rock alternativo