Dipendenza da smartphone, «nomofobia», «vamping» e «fear of missing out». Sono solo alcuni aspetti della complessa fenomenologia dell’uso eccessivo di internet, spiegati in un manuale appena pubblicato, intitolato Internet Addiction Disorder (FrancoAngeli). Il libro è stato scritto da Pietro Scurti, psicologo, psicoterapeuta e docente di Psicoterapia alla scuola di Formazione Iter a Napoli e Caserta, in collaborazione con colleghe e colleghi.
Pietro Scurti, come funziona la dipendenza da internet?
Prima di tutto bisogna chiarire che Internet non costituisce di per sé un problema, anzi è uno strumento che ci ha permesso, quasi in tempo reale, di connetterci col mondo offrendo confronti e possibilità, mentre prima restavamo circoscritti nel nostro ambito di appartenenza culturale e sociale. Quando si crea una dipendenza patologica è perché si instaura un circuito di gratificazione che va a compensare e a ricreare continuamente un vuoto. Ciò che gratifica non sazia l’utente. Proprio come per le sostanze «classiche», si attiva un meccanismo di tolleranza che spinge a esporsi al comportamento dipendente. Il tempo passato online aumenta progressivamente fino a raggiungere anche picchi tra le 10 e le 14 ore. Giochi virtuali, social e navigazioni su internet prendono sempre più spazio e tempo dentro di sé. Anche quando la sessione sul pc o sul tablet è terminata, si ha difficoltà a staccarsi dall’idea di essere fuori dalla rete. Come per le altre dipendenze patologiche, quella da internet provoca ansia, depressione e angoscia ogni volta che ci si allontana dalla fonte della gratificazione.
Perché si instaura la dipendenza dalla rete?
I motivi per cui sempre più adolescenti, ma anche adulti, intrattengono una relazione problematica (e talvolta patologica) con la rete, sono vari e complessi, riconducibili a fattori di natura psicologica, sociale e tecnologica. Per quanto riguarda l’aspetto psicologico, la rete sembra rappresentare la soluzione immediata a solitudine, stress, depressione e ansia. Internet diventa la strategia per evadere dalla realtà. La virtualità diventa la nuova «comfort zone». Da un punto di vista sociale, dobbiamo considerare che siamo immersi nella tecnologia ed essere scollegati potrebbe significare essere tagliati fuori dal mondo. Riguardo, invece, all’aspetto tecnologico, vanno considerati la facilità con cui si può accedere a più metodi di collegamento (a portata di click) e il design coinvolgente, studiato proprio per catturare l’attenzione degli utenti e tenerli incollati allo schermo. Gli interventi terapeutici devono, quindi, orientarsi verso modalità complesse e integrate in cui più figure professionali partecipano alla strutturazione di un programma di recupero della persona e del suo ambiente.
Quali sono le domande da porsi per capire se si ha una dipendenza da internet?
L’elemento chiave è senza dubbio rappresentato dal tempo di esposizione alla rete. All’internauta dipendente risulterà sempre più difficile staccarsi dalla connessione e dalle attività intraprese, social, chat, giochi virtuali, ecc. Sarà assalito da disturbi della sfera somatica e psicologica: ansia, nervosismo, angoscia, talvolta dolori gastrici. Un altro elemento importante è l’abbassamento della propria autostima e delle performance scolastiche o lavorative.
Nel libro entrate anche nel merito di fenomeni come «nomofobia», «vamping» e «fomo». Ce li può spiegare?
Nel panorama delle dipendenze da internet dobbiamo fare i conti con nuove terminologie a cui ovviamente non siamo ancora preparati. La «nomofobia», nota anche come «sindrome da disconnessione», è caratterizzata da un’eccessiva ansia provocata dall’abbandono del telefono, dall’esaurimento della batteria o dalla mancanza di segnale. Il «vamping» è la tendenza a rimanere svegli fino alle prime ore del mattino per giocare, condividere post, messaggi, guardare video o sfogliare i feed sulle varie piattaforme dei social media. Per «fomo» si intende una sorta di ansia sociale caratterizzata da una persistente paura di perdersi eventi piacevoli, momenti divertenti e opportunità gratificanti, unita all’eccessivo bisogno di restare in contatto con le persone sui social. Sindromi di questo tipo hanno il loro target naturale soprattutto negli adolescenti, generando un abbassamento delle performance diurne e conseguentemente un calo della qualità della vita. Potremmo anche aggiungere come ulteriore aspetto il «phubbing», ovvero la tendenza a snobbare il nostro interlocutore presente per guardare e controllare continuamente il cellulare. Da ricerche effettuate pare che si indugi inutilmente nel verificare il proprio smartphone anche 200 volte al giorno.
Come possiamo vivere bene in mezzo a questo continuo disturbo della rete?
Da una nostra ricerca effettuata su 414 adolescenti abbiamo evidenziato che l’ansia e l’alessitimia (la difficoltà a riconoscere ed esprimere le proprie emozioni) sono fattori determinanti per lo sviluppo della dipendenza da internet. Abbiamo anche notato che certi stili genitoriali favoriscono la problematicità, e poi l’esplosione della dipendenza dalla rete, in quanto improntati alla negazione dell’accesso a internet per tutelare i figli. Risulta, invece, utile come fattore protettivo, essere orientati al dialogo, alla conoscenza e all’interazione con i propri figli, in relazione all’utilizzo del mezzo tecnologico. Quindi, demonizzare lo sviluppo tecnologico o connotarlo frettolosamente come negativo non solo è anacronistico, ma spezza di fatto la possibilità comunicativa con i giovani. Inoltre, basandoci sulla ricerca, possiamo dire che i genitori devono smarcarsi da una «posizione liquida» e diventare persone reali di riferimento. Navigare su internet insieme ai propri figli, interessarsi a quel mondo e partecipare alla costruzione di un senso condiviso rimane ancora l’ultimo o l’unico baluardo per non essere sconfitti dall’evoluzione tecnologica e ancora peggio esclusi dalla vita delle persone care.