Quel pesce della discordia

by Claudia

Fili di seta, ogni anno, in occasione della festa indù del Durga Puja, India e Bangladesh si danno battaglia per l’hilsa

Possiamo rilassarci: per le feste in India tutti (o meglio, tutti quelli che se lo sono potuto permettere) hanno avuto nel piatto un pezzo di «Ilish maach», un pesce chiamato hilsa (nella foto) apprezzato, a Calcutta e dintorni, quanto e più di un’astice. E, fatte le debite proporzioni, altrettanto costoso e pregiato. Un pesce che non può assolutamente mancare sulla tavola di ogni alto-borghese durante le festività annuali: è come se sulle tavole natalizie da questa parte del mondo mancasse il tacchino o, a Napoli, il capitone. Per questo, di recente, abbiamo avuto, dopo la famosa «diplomazia del cricket» che regolava in passato i tumultuosi rapporti tra India e Pakistan, un altro capitolo della famosa «diplomazia del pesce» che regola invece i rapporti tra India e Bangladesh.

Riassumendo: l’hilsa, un pesce vagamente imparentato con le aringhe che prospera nel Golfo del Bengala, è considerato il «pesce nazionale» del Bangladesh tanto da essere stato riconosciuto nel 2017 come «indicatore geografico» del Paese. Questo pesce rappresenta circa il 12% della produzione ittica totale del Bangladesh e contribuisce per circa l’1% al suo Pil. I pescatori catturano ogni anno fino a 600’000 tonnellate di hilsa, su cui sono in vigore restrizioni all’esportazione. Per anni, però, il divieto di esportazione era stato in qualche modo aggirato in concomitanza del Durga Puja, la più importante festività annuale a Calcutta e in tutto lo Stato del Bengala occidentale (che si festeggia tra settembre e inizio ottobre): perché anche i bengali indiani sono, come i loro cugini del Bangladesh, grandi estimatori dell’hilsa che riveste oltretutto un ruolo di primo piano nei banchetti festivi.

«Il Governo precedente revocava il divieto durante il festival Durga Puja. Lo chiamavano “regalo”. Questa volta non credo sia necessario fare un regalo perché, se lo facciamo, la nostra gente non sarà in grado di mangiare il pesce mentre è permesso esportarlo in India in grandi quantità. Molto pesce continua a passare dal Bangladesh all’India nonostante il divieto. Questa volta non permetteremo all’hilsa di attraversare il confine». Queste parole, pronunciate da Farida Akhter, consigliera del Ministero della pesca e dell’allevamento del nuovo Governo transitorio di recente insidiatosi in Bangladesh, sono cadute come una secchiata d’acqua fredda sui bengali indiani e sono suonate, alle orecchie di molti, come una vera e propria dichiarazione di guerra. Soprattutto, la posizione del nuovo Governo segna, se ce ne fosse ancora bisogno, il deciso cambio di strategia nei riguardi dell’India e un netto distacco dalla «diplomazia dell’hilsa» di cui sopra. L’ex-premier Sheikh Hasina inviava difatti cassette di hilsa a Mamata Banerjee, prima ministra del Bengala occidentale in occasione delle feste. E nel 2017, nella speranza di risolvere un’annosa disputa sull’acqua, aveva perfino inviato 30 chili di hilsa all’allora presidente indiano (e nato a Calcutta) Pranab Mukherjee.

Si è appena celebrata la più importante festività cittadina, il Durga Puja o Navaratri, che a Calcutta assume però aspetti peculiari rispetto al resto dell’India. Si tratta di nove notti (e rispettivi giorni) dedicati alla dea Durga che, secondo la mitologia induista, sconfigge il demone Mahishasura. Simbolicamente si tratta di una celebrazione della vittoria del bene sul male, della luce sulle tenebre e, per le popolazioni tribali, anche di un’antica festa del ringraziamento. Le donne sposate tornano in quei giorni a visitare i loro genitori, i figli lontani tornano a casa. Per diversi giorni e notti in tutta l’India mistici e gente comune osservano un digiuno più o meno stretto, ci si dedica alla preghiera o, nel caso degli artisti, all’esercizio continuo della pratica della propria arte (in India viene considerata di per sé una preghiera).

In ogni quartiere vengono installate grandi statue della dea sotto tendoni appositamente costruiti e, il settimo giorno della festa, ci si reca di sera a visitare le installazioni più belle e sfarzose. La festa si conclude con una cerimonia solenne davanti alle statue della dea, che vengono poi portate in processione fino al più vicino corso d’acqua e gettate nel fiume tra canti e preghiere. A Calcutta, invece che l’invincibile guerriera, Durga viene considerata la figlia sposata che torna a casa dei genitori una volta l’anno: di conseguenza deve essere festeggiata, vezzeggiata, viziata e coccolata. Più che digiuni e preghiere, in città si celebrano feste, si organizzano concerti, si offrono pranzi e cene. Pranzi e cene in cui, come da tradizione, non può proprio mancare l’hilsa: impanato con spezie e fritto, al cartoccio avvolto dentro foglie di banano e insaporito da una crosta di senape e via cucinando e mangiando. Il povero hilsa senza più passaporto minacciava quindi di rovinare la festa a molti. Sarà stata l’ondata di proteste sui media, sarà stata una calcolata strategia da parte del Governo del Bangladesh ormai formato da integralisti islamici che non perde occasione per prendersela con l’India, sarà che il nuovo premier Muhammad Yunus è troppo vecchio per essere credibile come Grinch, ma la faccenda è stata alla fine risolta: Dacca graziosamente e «come gesto di buona volontà» ha finalmente acconsentito a esportare in India 3000 tonnellate di hilsa in occasione del Durga Puja. I cittadini di Calcutta hanno potuto dormire sonni tranquilli, la tavola festiva è stata salvata, i cuochi hanno affilato i coltelli e l’incidente diplomatico è stato rimandato al prossimo anno.

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