Cerchiamo di capire gli attacchi israeliani al contingente Unifil. Le reazioni all’uccisione del leader di Hamas
L’uccisione di Sinwar, capo militare di Hamas e regista della strage del 7 ottobre 2023, è l’ennesimo colpo di scena con cui Israele ha rovesciato in proprio favore un situazione di estrema difficoltà. Nei giorni precedenti all’eliminazione di Sinwar, le forze armate israeliane erano finite nuovamente sotto accusa per i loro molteplici attacchi al contingente Onu-Unifil in Libano. L’eliminazione del nemico pubblico numero uno ha fatto passare in secondo piano la questione Unifil. Anche se potrebbe tornare a calamitare attenzione in futuro. Di fronte alla morte di Sinwar gli anti-israeliani evocheranno lo spargimento di sangue innocente che l’ha preceduta, riferendosi a ciò che negli ultimi dodici mesi ha subito la popolazione civile a Gaza, poi anche (sia pure su scala minore) in Cisgiordania e in Libano. Perché Israele non ha perseguito da subito un «colpo chirurgico» che eliminasse Sinwar e i suoi sicari uno per uno, risparmiando gli innocenti? Se Idf (l’abbreviazione di Israel Defence Forces) e Mossad sono così efficienti, perché per un anno hanno sparato nel mucchio?
Un’altra reazione si può riassumere in: missione compiuta, voltiamo pagina. L’uccisione di Sinwar è il giusto castigo per un criminale, la cui sopravvivenza avrebbe comportato una costante minaccia per Israele e per la sua popolazione. Bisogna celebrare questo successo, ma subito dopo bisogna trarne le conseguenze giuste: ora deve fermarsi l’offensiva militare su Gaza, è finalmente possibile un cessate-il-fuoco, una ripresa dei negoziati per la liberazione degli ostaggi. A cui dovrà seguire l’instaurazione di un’autorità di governo locale, palestinese e con il sostegno del mondo arabo. Quindi il passaggio ancora successivo: pianificare la ricostruzione di Gaza, il ritorno degli sfollati, un futuro umano e civile, con garanzie di pace e sicurezza da ambo le parti. È la linea americana ed europea.
A Tel Aviv il premier (e non solo lui) può dare una sua interpretazione di segno molto diverso. «Se avessimo dato retta agli inviti alla moderazione che cominciarono a pioverci addosso già 24 ore dopo il massacro del 7 ottobre – così possono pensare Netanyahu, il suo ministro della Difesa Gantz e altri israeliani – avremmo concesso a Hamas una tregua, che Sinwar avrebbe usato per riorganizzarsi e tramare nuovi attacchi mortali. Pochi al di fuori di Israele hanno capito che abbiamo a che fare con dei nemici spietati, irriducibili, votati al nostro sterminio». Da questa interpretazione può derivare un’altra conseguenza: che Israele non sarà al sicuro finché non avrà regolato i conti con nemici perfino più potenti di Hamas: Hezbollah, e l’Iran. La psicosi d’assedio in Israele è reale, in questo contesto si situa anche la sua posizione verso l’Onu, organizzazione che considera dominata da nemici. Un’occhiata a una carta geografica e demografica, per mettere a confronto la minuscola dimensione dello Stato d’Israele con le vaste aree territoriali e popolazioni controllate dai nemici che hanno giurato la sua distruzione e lo sterminio degli ebrei (Iran più Iraq sciita più Siria più Libano meridionale più Yemen), spiega la sindrome «Davide contro Golia». Il Davide israeliano in realtà è una superpotenza economica, tecnologica e militare, in confronto ai paesi molto meno avanzati che vogliono ridurlo in cenere. È curioso che in taluni ambienti ci sia più comprensione verso Putin quando descrive come «accerchiata» la mastodontica Russia – la Nazione più gigantesca del pianeta – di quante ne riscuota Israele. Colpa di Netanyahu, senza dubbio, e delle tante nefandezze che lo hanno isolato nel mondo. Però una lucida analisi geopolitica consiglia di prestare attenzione al punto di vista israeliano, se non altro per prevedere le prossime mosse.
Nel caso specifico dell’attacco a Unifil, le forze armate israeliane (Israel Defense Forces, abbreviato in Idf) hanno spiegato che Hezbollah opera nelle immediate vicinanze. Facendosi scudo della missione Onu per garantirsi impunità, da lì continua a scagliare ogni giorno missili verso il territorio israeliano, dove 60’000 persone (arabi inclusi) hanno dovuto essere evacuate da un anno. Il modus operandi di Hezbollah non è diverso da quello di Hamas: questi eserciti calpestano a loro volta la legalità internazionale, usano civili innocenti come scudi, piazzano le loro basi militari o rampe di lancio missilistiche incollate a ospedali, scuole, abitazioni, moschee, e missioni Onu. Così innanzitutto ostacolano e complicano l’azione dell’Idf; poi se gli israeliani li colpiscono finiscono sotto processo per atti criminali. È una logica spietata, ma sta funzionando. La vicenda Unifil è solo l’ultimo episodio del crescente antagonismo fra Israele e l’Onu. Lo Stato israeliano è stato più volte condannato per gli insediamenti illegali di coloni in Cisgiordania e nella parte orientale di Gerusalemme; diverse risoluzioni Onu impongono una ritirata da quegli insediamenti. Netanyahu e altri dirigenti israeliani sono imputati per genocidio e crimini di guerra di fronte a un tribunale delle Nazioni Unite. Ogni volta che al Palazzo di Vetro di New York l’assemblea generale discute e vota sulla questione israelo-palestinese, l’isolamento di Tel Aviv è evidente. Per molti questa è la prova lampante che Israele ha torto.
Il punto di vista israeliano è diametralmente opposto. Netanyahu, anche se non rappresenta l’opinione di tutto il suo popolo, raccoglie però ampi consensi quando denuncia l’antisemitismo dilagante in molti discorsi tenuti alle Nazioni Unite. Il suo ministro degli Esteri, Israel Katz, ha denunciato come aberrante il fatto che il segretario generale Onu António Guterres abbia condannato l’escalation israeliana ma non il recente diluvio di missili dall’Iran. Ad alimentare i sospetti di Tel Aviv ha contribuito la vicenda dell’Unrwa, l’agenzia Onu per l’assistenza umanitaria ai rifugiati palestinesi: da anni gli israeliani segnalavano la sua infiltrazione da parte di Hamas a Gaza, ma l’Onu ha chiuso gli occhi fino alla strage del 7 ottobre 2023 e anche dopo. Molto tardivamente, l’Unrwa ha espulso dai ranghi del suo organico stipendiato dei militanti di Hamas, alcuni dei quali avevano partecipato attivamente alla strage. Dopo una riprovazione iniziale, la maggioranza dei paesi occidentali hanno ripreso a canalizzare i loro aiuti umanitari attraverso l’Unrwa, nonostante i suoi legami con Hamas non siano stati recisi del tutto. L’attacco all’Unifil si situa in questo contesto, in cui Israele considera l’Onu come un’organizzazione dominata da forze ostili, in grado di piegare i principi della legalità internazionale ai loro calcoli d’interesse geopolitico. Donde il sospetto, o la certezza dell’Idf, che Unifil abbia «tollerato» degli insediamenti militari di Hezbollah nelle vicinanze delle sue basi, in una zona che avrebbe dovuto essere smilitarizzata e non lo è affatto.