Inchino alla Madonnina sotto la forza del vento

by Claudia

È la montagna più alta della vicina Penisola. Parlo del Gran Paradiso, noto per essere l’unico massiccio montuoso che supera i 4mila metri a trovarsi interamente in territorio italiano. Le sue diramazioni secondarie danno vita a ben cinque valli: Val di Cogne, Valsavarenche, Val di Rhêmes, Valle dell’Orco e Val Soana. A seguito di tale ricchezza, sono numerose anche le vie d’accesso. Io ho scelto la più gettonata, ossia quella che passa dalla Valsavarenche.

Giungo in località di Pont, sede di uno spettacolare campeggio, scelto da molti alpinisti come «campo base» da cui far partire l’attacco alla vetta del Gran Paradiso (4061 m). Considerando i fatti accaduti in seguito rimpiango di non avere preso con me la tenda che non ho mai acquistato. La decisione di pernottare in un rifugio mi sembra una mancanza di immaginazione, una pigra valutazione allo scopo di risparmiare la modica quota di 700 m. Dopotutto godevo di un ottimo acclimamento acquisito in Valfurva, durante la scalata del Gran Zebrù.

Mi metto in cammino per compiere l’avvicinamento. Il sentiero che conduce fino al rifugio Vittorio Emanuele III è colmo di escursionisti. Molti di loro ambiscono a toccare la Madonnina situata in vetta e sono condotti da una guida esperta. Il traffico di persone cresce gradualmente fino al rifugio, dove c’è un continuo viavai di «pellegrini». Perché in verità di questo si tratta. Ne testimonia il fatto che la stragrande maggioranza, me compreso, non toccherà mai la vetta situata qualche metro più in alto, che sta una quarantina di metri più in là della statua, ed è più impegnativa da raggiungere.

Certo, il vero traguardo è indubbiamente la statua della Beata Vergine di color bianco candido, e di sedersi su quelle rocce per godere il panorama che spazia sulla catena alpina, ma i desideri non vengono sempre esauditi.

Il mio pernottamento non è tra quelli che si possano ritenere riusciti. A causa di una forte affluenza, circa 250 persone, vengo alloggiato in un container con altri quattro individui di cui non saprò mai il nome. Come scoprirò in seguito, si trattava di un gruppo di sordomuti che hanno dovuto rinunciare alla scalata a causa del malore di un membro della cordata. Il poveraccio si è alzato più volte, tutta la notte, per rimettere la cena servita qualche ora prima. Dubito che soffrisse del mal di quota, trovandoci a soli 2700 mslm. Con molta probabilità il malcapitato si è procurato una congestione, a causa dei forti venti freddi provenienti da nord-ovest.

Intendiamoci, non ho penato per la fatica nel prendere sonno – il mio riposo ideale per mantenere un ottimo equilibrio mentale consiste nel concentrarmi sul respiro dormendo giusto un paio di ore – no, la frustrazione è nata dal dispiacere di non poterlo aiutare in alcun modo. Non avevo con me nessun medicinale e, cercarlo di notte, sarebbe stato un’impresa difficile da realizzare.

Alle 02.00 decido di alzarmi e di partire verso il traguardo. Non tutti i mali vengono per nuocere e quello del mio compagno di stanza mi farà evitare la folla di gente in prossimità della vetta. Sono il primo a partire dal rifugio e mi spingo verso una morena formata da grossi blocchi di pietra che conducono sul ghiacciaio. Il percorso è fastidioso e bisogna prestare attenzione a dove si poggiano i piedi, prima di giungere sull’autostrada di ghiaccio dove appronto i ramponi.

Il vento ha portato via le nuvole, abbassando così di qualche grado la temperatura, un fattore determinante per consolidare il manto nevoso. Procedo lungo il ghiacciaio, in piena notte, osservando le stelle e la Via Lattea. L’assenza d’inquinamento luminoso esalta la sfera celeste in un modo che non vedevo dai tempi del servizio militare. Quella volta ci trovavamo in cima al San Gottardo per un’esercitazione di Compagnia.

Dopo poche ore mi ritrovo sulla famosa schiena d’Asino, dove vengo raggiunto da Michele, un arrampicatore di Lecco partito dal Vittorio Emanuele. Il suo passo è costante e deciso. Al posto del casco indossa un vecchio cappello da alpino. Si ferma a pochi metri da me per montare i ramponi. Scambiamo due parole, i nostri volti si dipingono di soddisfazione. Alla vetta mancano 400 metri di dislivello, ma sappiamo di poterci arrivare con largo vantaggio sulla folla che è ben distaccata da noi.

Va detto che il Gran Paradiso non è una scalata difficile. Ha le caratteristiche di una sfacchinata interminabile, ma il tratto finale si presenta sotto forma di un’affilata cresta che, in caso di forte traffico, diventerebbe molto scocciante. Con Michele ci diamo appuntamento in cima. A poche centinaia di metri mi imbatto in tre alpinisti che rinunciano a proseguire. Chiunque sia mai entrato in un negozio di montagna può capire l’elevato costo dei capi da abbigliamento che vestono. A loro parere la velocità del vento sulla Becca di Moncorvé, il tratto più esposto, è tale che dovrei considerare seriamente il mio ritiro. Non è una notizia della quale vado entusiasta. Di Michele non vedo più nemmeno la sagoma. Decido di alleggerire i vestiti. Invece di una t-shirt termica, indosso un capo meno spesso a maniche lunghe, mentre un leggero guscio antivento fino alle ginocchia prende il posto del pile sintetico e la giacca termica. Due soli strati per fronteggiare l’ostacolo che ha respinto i miei «compagni» partiti da un altro rifugio.

Entrare nel corridoio del vento in transizione sulla Becca provoca in me delle sensazioni miste. Mi accascio sul ghiacciaio e infilo la piccozza per una ventina di centimetri. Chiudo gli occhi e cerco di adattarmi al nuovo ambiente, di comprendere l’intensità della corrente d’aria. Un esercizio che consiglio a tutti i «delinquenti di montagna». Lassù, al cospetto della montagna, siamo insignificanti. Non abbiamo nessun potere di influenzare gli eventi decisi dal Creatore, che ci parla anche attraverso la natura. La chiave per decifrare quell’impressionante potenza è l’umiltà. La montagna non è un mostro che dobbiamo sconfiggere, bensì un’esperienza metafisica dalla quale impariamo a scoprire noi stessi per trovare la serenità.

Dopo un paio di minuti decido di proseguire il mio cammino sempre più lento a causa della quota di 3800 m. C’è un vento forte, freddo e rumoroso, ma soffia in direzione della vetta e, stringendo i denti, può essere usato a proprio vantaggio. Oltretutto venivo dall’esperienza molto più brutale vissuta sul ghiacciaio dell’Adula. Sicuramente una prova che ha influenzato la mia successiva decisione.

A poche decine di metri dalla Madonnina incontro un alpinista canadese, anche lui senza casco. Sta cominciando la discesa a passo di corsa. Si ferma davanti a me urlando di gioia in inglese: «In vetta non c’è un filo di vento, fa caldo e ci sono rimasto per venti minuti». Da quel che ho capito è partito verso la 01.00 di notte dal campeggio di Pont. Il suo sorriso e i suoi lunghi capelli strapazzati dal vento la raccontano tutta. Per lui 20 km e 2100 m di dislivello compiuti in un tempo che faccio fatica a concepire. È il primo «delinquente solitario» ad abbracciare la statua, seguito da Michele, più preoccupato per il cappello da alpino del padre, guida alpina, che delle avverse circostanze serviteci sulla Becca di Moncorvé.

Arrivo alle 07.49: sono il terzo solitario, tuttavia partito con un vantaggio abissale rispetto agli altri due. Lassù incontro Michele. Seduto di fianco a uno sperone di roccia si gode il panorama mozzafiato offerto dall’assenza di nuvole. Il Monte Bianco è l’unico ad averne agganciata una. 500 m più in basso si vedono le cordate, la cui disposizione ricorda delle formazioni militari prima di una battaglia. Aspettano il cessare del vento prima di mettersi in moto. Tra di loro ci sono persone che salgono in cerca d’acclimatamento per le sfide più importanti. Altri si affidano a una guida per provare l’ebbrezza dei 4000 m. Altri ancora lo fanno per sentirsi liberi.

In compagnia dell’arzillo arrampicatore di Lecco intraprendo la via del ritorno. Procedendo con un passo veloce, talvolta correndo, incrociamo i team di cordata intravvisti dalla vetta. Siamo in netta opposizione rispetto a quello che vediamo. Proseguiamo verso il rifugio ricordando la nostra scalata. Identificata con la lettera «F» dalle riviste specializzate in materia, la via normale per il Gran Paradiso, 4061 mslm, è un itinerario facile. Al contrario dell’opinione comune la si può intraprendere in solitaria. La via in stagione è ben tracciata e sul percorso si incontrano molti escursionisti pronti ad aiutarvi e farsi seguire. Una bella passeggiata sul ghiacciaio che io e Michele abbiamo il piacere di consigliarvi.

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