Quella di Muriel Furrer non correva diritta. Una curva, una delle tante sul percorso del Mondiale di ciclismo di Zurigo. Una distrazione. Forse. Non lo sapremo mai. La bicicletta della diciottenne ciclista svizzera scivola sul bagnato. Schizza fuori strada. L’impatto contro un albero è violentissimo. Muriel rimane stesa a terra. A lungo. Per più di un’ora. Attorno non c’è anima viva. Era un tratto in cui i corridori viaggiano a tutta velocità. Per il pubblico non è interessante piazzarsi proprio lì. Ci si accorge della sua assenza solo al termine della corsa, quando la fotocellula non dà nessun segnale del passaggio della ragazza sulla linea del traguardo. Scatta l’emergenza. La trovano. Le prestano i primi soccorsi. La trasportano all’ospedale. La operano per un gravissimo trauma cranico. Invano. Il suo cuore cesserà di battere il pomeriggio del giorno seguente. Una morte assurda. Inaccettabile, per chi segue il ciclismo e lo sport con passione ed entusiasmo. Immaginiamoci per i suoi cari. Una morte che solleva una serie di interrogativi. Non per fare accademia. Per evitare che fatti del genere si ripetano. Oppure per fare che si ripetano il meno possibile, dato che quando corri a grande velocità in sella a sette chili di carbonio, il rischio zero non esiste.
A un mese dalla sua morte, il primo interrogativo che continua a frullarmi in testa è quello delle radioline. Gli amanti dello spettacolo a ogni costo predicano la loro abolizione. «I corridori gareggiano come dei robot telecomandati. Senza auricolari oserebbero di più, le corse sarebbero più scoppiettanti». Corridori e direttori sportivi replicano che le radioline servono non a ingabbiare la corsa, ma a comunicare agli atleti ostacoli e imprevisti sul tracciato.
L’Unione Ciclistica Internazionale (UCI), ha ceduto alle pressioni dei fautori dello Show. Da alcuni anni il Mondiale si corre a naso, a sensazioni, senza i suggerimenti tattici delle ammiraglie. Gran belle gare, non c’è dubbio. Pensate alle ultime tre edizioni vinte da Evenepoel, Van der Poel e Pogacar. Puro godimento. C’è tuttavia il rovescio della medaglia. Che ne sarebbe stato di Muriel se ci fossero state le radioline? Ha perso subito i sensi? Avrebbe avuto un attimo di lucidità per lanciare un allarme? Non lo sapremo mai. Nel dubbio, Signori amanti dello spettacolo, io mi dico «radioline tutta la vita».
C’è un secondo aspetto che mi tormenta. Perché non c’era un addetto alla sicurezza nel punto in cui Muriel ha perso il controllo della bicicletta? Eravamo a un Mondiale, in un tratto in discesa, in prossimità di una curva, sul bagnato. Una dimenticanza? Oppure questioni di budget? In entrambi i casi c’è da indignarsi. Il pensiero corre a Gino Mäder, vittima lo scorso anno di un incidente mortale al Tour de Suisse mentre scendeva dall’Albula senza che telecamere o testimoni oculari potessero farci capire la dinamica. Stesso paese: la Svizzera. Stessa organizzazione: quella del Tour de Suisse. E se per Gino il termine fatalità mi si ripropone come un mantra, data l’oggettiva difficoltà nel monitorare un percorso in linea di 211 km, a Zurigo non c’erano attenuanti. Un circuito di 27 km avrebbe dovuto avere un osservatore in ogni punto critico. Forse che il compenso a dieci, venti o trenta persone in più avrebbe fatto sballare il budget della manifestazione? Dubito. E se anche fosse, chi se ne frega?
Non sapremo mai se, in caso di un intervento immediato, Muriel sarebbe sopravvissuta. Sappiamo però che è rimasta a lungo sola, stesa a terra, esanime, senza che nessuno le portasse un gesto o una parola di conforto. Sono i corridori a pagare un prezzo altissimo. Ne sono consapevoli. Per questa ragione si stanno organizzando, con il sostegno delle proprie squadre, affinché venga creato un pool di specialisti che si chini con serietà sul tema sicurezza. E sono persino disposti loro stessi a stanziare un budget, per implementare tutti gli accorgimenti che possano ridurre il rischio. Sappiamo, noi come loro, che la ria sorte è in agguato ovunque. Si può morire scivolando banalmente in casa, sfracellandosi poiché qualcosa non ha funzionato nella tuta alare, o anche perché il copertoncino della bici non ha tenuto in quella maledettissima curva in discesa sul bagnato. Tuttavia, storie tristi come quelle di Muriel Furrer non dovrebbero più ripetersi.