Conoscere più da vicino la vita e il contributo artistico del grande comedian afroamericano Richard Pryor diventa attività preziosa soprattutto per riflettere sull’ideologia woke che oggi imperversa. Maschilista, violento e padre snaturato: possibile che questa ideologia, nella sua migliore accezione – ovvero la consapevolezza del razzismo e sessismo endemico della società americana – possa aver mosso i primi passi proprio grazie alla sua parabola stilistica sul palco?
Come uomo e artista è stato sicuramente figlio del suo tempo e, soprattutto, del suo ambiente… e che ambientino! Nasce nel 1940 in un bordello della periferia nera di Peoria, Illinois, di cui la madre e la nonna sono tenutarie. È il frutto di un rapporto occasionale della madre con un ex pugile, neppure a dirlo gestore anch’egli di bordelli e bar. Richard trascorre infanzia e giovinezza sotto quel tetto, tra il via vai dei clienti e un’umanità derelitta. La sua «infanzia» finisce ufficialmente a 14 anni, con l’addio alla scuola che avviene dopo aver minacciato di picchiare un insegnante. Seguono lavoretti più o meno leciti e il servizio militare in Germania, che passa quasi interamente in cella dopo aver accoltellato un commilitone bianco per un non meglio precisato scambio di vedute in tema razziale.
Tornato a Peoria, abbraccia con entusiasmo tutto ciò che la sua città ha previsto per i suoi figli neri, ovvero figli naturali (ndr: anche detti illegittimi, cioè nati fuori dal matrimonio), rapporti occasionali e tossicodipendenza. Ancora un violento alterco, questa volta con il padre, lo costringe a cambiare aria, finendo per girare l’America con un gruppo di artisti itineranti. La folgorazione avviene in Canada, quando sfogliando la rivista «Newsweek», si imbatte in un articolo su una stella in ascesa, il comedian afroamericano Bill Cosby. Richard vuole diventare come lui, una star affermata, ricca e rispettata. Considerando che oggi Cosby è tra i più famigerati predatori sessuali – alla luce di decine di denunce sopraggiunte decenni più tardi – è paradossale come, invece, Cosby sia stato il primo comedian nero apprezzato dal pubblico bianco: ben vestito, educato e con un senso dell’umorismo perfettamente calibrato sulla borghesia bianca dei primi anni Sessanta.
Il «primo» Pryor, pertanto, non va molto per il sottile e parte a spron battuto scimmiottando il più illustre collega. La scelta lo premia, aiutandolo a conquistare velocemente le luci della ribalta. Pryor, però, è insoddisfatto: artisticamente sta girando a vuoto. Con una vita privata nella morsa di cause per alimenti, figli naturali e droga, il crollo arriva proprio a Las Vegas e direttamente sul palco: «Chi è che sta guardando questa gente, Rich? Non lo sapevo, perché non sapevo chi fosse Richard Pryor. E in quel lampo d’introspezione ho un vero crollo nervoso. […] Con un lampo d’ispirazione, finalmente riesco a dire qualcosa alla sala gremita: “Che cazzo ci faccio io qui?” Poi mi giro e lascio il palco».
Bandito per sempre da Las Vegas, decide di liberarsi una volta per tutte della sua immagine fasulla. Ispirato anche dalla comicità di Lenny Bruce, torna a Los Angeles e comincia a frequentare il club del comico nero Redd Foxx (relativamente conosciuto anche da noi grazie alla scalcagnata sitcom «Sanford & Son»): davanti a un pubblico nero – in un periodo in cui, usando le parole di Pryor, stanno facendo fuori «tutti i buoni» da Malcolm X a Martin Luther King, fino a John e Robert Kennedy – Pryor ricostruisce un proprio punto di vista originale, anche politico, aiutato tra gli altri dall’incontro con Miles Davis che, purtroppo, diventerà pure suo compagno di festini.
Ma anche questa sua parentesi losangelina non dura molto: diventato ancora padre, reagisce a suo modo. Scappa a Berkeley: «Fu il periodo più libero della mia vita. Berkeley era un circo di idee entusiasmanti, estreme, pittoresche, militanti. Droghe. Hippie. Pantere Nere. Proteste contro la guerra. Sperimentazione. Musica, teatro, poesia. Ero come un parafulmine. Assorbivo briciole di questo e di quello, mentre disegnavo il mio personale percorso inesplorato». Travolto da tutto questo, anche le sue esibizioni diventano più sperimentali: a volte sul palco intona solo versi animaleschi, altre volte decide di ripetere una sola parola, solitamente una parolaccia, ma declinandola in 57 intonazioni diverse. Quel che è importante in questo nostro racconto è che proprio qui si appropria della parola «negro». Pryor la sdogana e, tornato a Los Angeles, la usa per la prima volta davanti a una platea mista. Sul palco stavolta non sale più un emulo di Bill Cosby, ma il vero Richard Pryor, che fa battute sullo sballarsi, sul farsi l’amica della moglie e sui bianchi conservatori che vanno a caccia di donne nei ghetti neri. Scarta tabù su tabù come fossero caramelle, e il pubblico, dopo un momento di spaesamento, risponde entusiasta.
Neri e bianchi fanno a gara per mettersi in coda ai suoi spettacoli, gli album dei suoi monologhi vanno a ruba e anche il cinema comincia a interessarsi a lui. Ma la fama di artista «inaffidabile» non è graditissima agli Studios e così, nonostante performance sublimi come quella ne La signora del Blues accanto a Diana Ross, il Pryor cinematografico galleggerà sempre tra le pellicole della blaxploitation (ndr: da black, nero, ed exploitation, sfruttamento) e commediole innocue, come quelle in coppia con Gene Wilder. Proprio alla vigilia del grande successo al botteghino di Nessuno ci può fermare (1980) arriva, però, un’importante svolta nello stile di Pryor dal vivo, figlia di un episodio che gli accade di ritorno dal suo primo viaggio in Africa: «Seduto nella hall dell’albergo, una voce mi fa: “Che cosa vedi? Guardati attorno. Vedi per caso dei negri?” Rispondo: “No”. E la vocina: “Lo sai perché? Perché non ce ne sono” . Ero lì da tre settimane e non avevo mai pronunciato quella parola. E, amici, al pensiero iniziai a piangere…».
In quel momento Pryor capisce il potere insito nelle parole. Comprende, cioè, che nonostante avesse deciso di sdoganare la parola «nigger» proprio per «liberarsi» e aiutare a liberare la testa del suo popolo, allo stesso tempo aveva finito per «ingabbiare» sia sé stesso sia i suoi fratelli e sorelle. È forse il primissimo vagito di un movimento woke ante litteram: del resto, prima di tornare in auge più recentemente con le proteste di Black Lives Matter, il termine woke è stato usato inizialmente proprio dalla comunità afroamericana con significato di «stare all’erta» rispetto a un pericolo.
Fortunatamente Pryor si è fermato lì, continuando a essere un comedian graffiante e urticante. Quella che è diventata l’ideologia woke di oggi è arrivata, invece, ad alimentare anche derive estremiste come la cancel culture. Derive con le quali Pryor ci avrebbe fatto sicuramente divertire, disintegrandole sul palco… in 57 modi diversi.