«Pace non è volersi bene, come pensano in molti. Pace è già non ammazzarsi, semplicemente ignorarsi, facendo finta di nulla», disse una volta lo scrittore israeliano Amos Oz, quando confrontato con la allora precaria (nel frattempo esplosa) situazione del suo Paese. «Per essere in pace non è necessario guardarsi negli occhi, ci si può scaldare anche sedendosi schiena contro schiena, un po’ come, qui in Svizzera, facciamo tra regioni linguistiche diverse», aveva invece affermato lo scrittore zurighese Adolf Muschg.
Forse quello che i due intellettuali intendevano, è che la pace si regge su un equilibrio talmente precario che non è il caso di caricarla né da una parte né dall’altra, perché poi, come dimostrano i fatti della vita, le cose non vanno mai come invece ce le si aspetta.
Queste affermazioni risalgono a un paio di decenni fa, e rilette con gli occhi di oggi, ma soprattutto con la consapevolezza di quanto sta avvenendo nemmeno poi tanto distante da noi, hanno ormai quasi il sapore di un’amara utopia.
Così come, in fondo, c’è un senso di amarezza anche nel Premio Nobel per la Pace di quest’anno, conferito all’organizzazione giapponese Nihon Hidankyō, composta dai quei superstiti di Hiroshima e di Nagasaki che nell’agosto del 1945 furono folgorati dal pikadon (pika in giapponese è il lampo, don il tuono), l’esplosione nucleare che ne avrebbe segnato le vite per sempre. Come ha sottolineato il Comitato del Premio Nobel, il fatto che negli ultimi 80 anni non siano state utilizzate armi atomiche è incoraggiante, e da ricondursi in parte anche agli «sforzi straordinari di Nihon Hidankyo, e di altri rappresentanti degli Hibakusha», ossia i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, «che hanno contribuito in grande misura alla creazione del tabù nucleare. È perciò allarmante che oggi questo tabù contro l’uso di armi nucleari si trovi sotto pressione».
Da qualche tempo il cosiddetto «tabù nucleare» è davvero sotto pressione, e su più fronti, perché se da una parte dall’Iran alla Russia, passando per la Corea del Nord, uomini accomunati da una stessa sete di potere sostituiscono potenziali trattative con l’inventario delle proprie armi nucleari, dall’altra anche in Svizzera, anche dopo un lungo processo portato a termine dalla ex consigliera federale Doris Leuthard, si torna a parlare di nucleare, seppur in campo energetico. In un’epoca che dovrebbe essere impostata sulla transizione green da tempo, e dove molti, pur non avendo vissuto guerre, ricordano Chernobyl, è dunque saltato un grande tabù. Sul tavolo delle discussioni è ritornata l’idea della centrale atomica come sorta di panacea, in barba al pericolo – a oggi tutt’altro che scongiurato – della guerra, che con il nucleare può impattare in qualsiasi momento, come ha più volte quasi timidamente cercato di ricordare l’AIEA (International Atomic Energy Agency) riguardo a Zaporizhzhia.
Forse dobbiamo entrare in un’ottica di equilibri nuovi (per non dire assurdi, o inesistenti), del tutto diversi da ciò che abbiamo visto e vissuto alla fine del secolo scorso; e questo non solo in campo bellico o energetico: le regole stanno inesorabilmente cambiando, e allo stesso tempo nulla sembra scuoterci più di tanto. Il rischio, però, è che per ogni tabù che salta, ne salterà un altro, e in questo gioco al rialzo, dove ora è coinvolto quasi con disinvoltura il nucleare, a diventare tabù sarà sempre più la pace stessa.
Lo ha ricordato bene Domenico Quirco sulla «Stampa», quando, al netto di tutto il dovuto rispetto per Nihon Hidankyō, afferma che «è contro questa Guerra normale e globale a cui ci stiamo abituando e rassegnando, contro questa Guerra giusta, giustificata, auspicata come nuova igiene del mondo, nostalgia di barbarie, che i cinque giurati di Oslo avrebbero dovuto lanciare un urlo furioso, un esplicito stato di accusa».
Un Nobel per la Pace sotto forma di urlo avrebbe sicuramente fatto più rumore. Ma ne siamo poi così certi?