L’epoca dei cessate-il-fuoco

by Claudia

Le guerre si trascinano per decenni, fra alti e bassi, senza che si riesca a intravvedere qualcosa che assomiglia uno stabile assetto pacifico. Casi emblematici: il conflitto Russia-Ucraina e quello tra israeliani e palestinesi

Se Leone Tolstoj fosse stato nostro contemporaneo non avrebbe scritto Guerra e pace. La caratteristica del nostro tempo consiste nella perdita di senso di entrambi i termini. Si uccide e si viene uccisi, talvolta si smette di sparare e spesso si riprende. Ma nel primo caso non è guerra, nel secondo non è pace. Almeno non nel senso che finora tali parole avevano acquisito. Vediamo.

C’era una volta la guerra. Intesa come scoppio violento di ostilità fra due o più soggetti geopolitici. Fra Stati o dentro gli Stati (bellum civile). Queste esplosioni di ferocia collettiva non erano di norma fini a sé stesse. I soggetti perseguivano obiettivi specifici. Si combattevano per degli oggetti – essenzialmente territori dove esercitare il proprio potere, o negarlo ad altri – e/o poste immateriali, come religioni e ideologie. Oggi gli stessi protagonisti delle dispute belliche di rado hanno ben chiaro perché si battono. Non esiste quasi più il cosiddetto end state, lo scopo finale. Ne esistono surrogazioni vaghe, imprecise, mutevoli. Sicché risulta difficile stabilire chi abbia vinto, chi perso. Soprattutto, la vittoria delle armi di rado corrisponde al raggiungimento di una pace più favorevole rispetto a quella che si ruppe con l’avvio dei combattimenti. Per conseguenza, c’era una volta la pace. Oggi ci sono le sospensioni delle ostilità, più o meno provvisorie, spesso incomplete. Se Tolstoj fosse con noi avrebbe scritto un trattato sulle tregue. Viviamo l’epoca dei cessate-il-fuoco, quando va bene. I conflitti si possono trascinare per decenni, fra alti e bassi, fasi di furia e di raffreddamento, senza che si riesca a intravvedere qualcosa che assomigli a uno stabile assetto pacifico. Latitano di conseguenza i trattati di pace. Si negozia al massimo su modi e tempi delle tregue, sempre revocabili. Dalla razionalità alla nevrosi.

Due esempi che oggi ci tormentano. La guerra fra Russia e Ucraina ha almeno un secolo di storia. È la classica crisi fra un Impero in decomposizione e una Nazione in formazione che cerca di autodeterminarsi. Scontro tanto più micidiale in quanto investe due popoli simili per storia, lingua e cultura, anche se ciascuno – specie la Nazione in fieri – fa di tutto per distinguersi e celebrarsi come diverso anzi opposto. Narcisismo delle piccole differenze. Tutto è cominciato con la prima guerra mondiale, quando i tedeschi vittoriosi sul fronte orientale favoriscono la nascita nel 1917-18 di uno staterello ucraino, di fatto loro protettorato. Questione di mesi, e il crollo del Secondo Reich, seguito dalla guerra civile russa con forte partecipazione internazionale, riporta quell’embrione di Ucraina sotto Mosca. A disposizione dei bolscevichi invece che dello zar. Scenario simile si dipinge nella seconda guerra mondiale, con il ritorno dei tedeschi, stavolta in veste nazista, la conseguente riapparizione del nazionalismo ucraino in armi e la rivincita sovietica. Con relativa repressione della resistenza ucraina, attiva fino a metà degli anni Cinquanta. La guerra attuale, quando sarà sospesa, non vedrà la fine della reciproca ostilità. Quindi non confini definiti e stabili. Assisteremo probabilmente all’annessione di fatto di alcune province ucraine alla Russia, non riconosciute dall’Occidente e da gran parte degli altri Stati. Ad accentuare lo iato fra situazioni di fatto e di diritto, tipiche dell’assenza di una vera pace. In attesa del prossimo round, fra qualche anno o decennio.

Ancora più macroscopico l’esempio mediorientale. In particolare, la guerra fra Israele e palestinesi. I cui prodromi risalgono ancora una volta ai primi dello scorso secolo, con il ritorno in Terra Santa di una crescente popolazione ebraica e il rifiuto arabo di accettare questa realtà. Dopo decenni di guerre brevi tutte risolte con il trionfo di Israele – salvo il pareggio della guerra contro Hezbollah, in Libano, nel 2006. Ora assistiamo a una fase acuta dello scontro, dai toni apocalittici. Israeliani e palestinesi si sentono in pericolo esistenziale. Ciascuno contando su potenti alleati, non esattamente disposti a dissanguarsi per i rispettivi clienti. È il caso di Stati Uniti e Iran. Il sangue ebraico versato il 7 ottobre 2023 e quello arabo-palestinese dovuto alla reazione israeliana segnalano l’incrudimento del conflitto secolare fra due popoli rassegnati a combattersi a tempo indefinito. Negandosi reciprocamente lo statuto di umanità. Il tutto aggravato dalla manipolazione delle religioni a scopo di mobilitazione bellica.

Mentre scriviamo la guerra sembra fuori controllo. Un giorno non vicino verrà sospesa, almeno su alcuni dei sette fronti dove oggi si combatte. A meno del collasso di Israele o dei suoi nemici. Di sicuro ci vorranno generazioni prima che la carica di odio reciproco possa essere stemperata. Il racconto delle atrocità del nemico sarà trasmesso di padre in figlio. E in nipote. Insieme alla guerra e alla pace, pare scomparsa l’arte della diplomazia. Del compromesso negoziato. Approccio razionale sommerso dalle propagande e dalle manipolazioni eccitate dai media, specie se (a)sociali. Il confine fra realtà e falsificazione è sempre incerto, adattabile alle esigenze dei contendenti. La stessa parola «pace» è fuori moda, mentre «guerra» è termine ossessivo. Difficile immaginare come spezzare questo circuito perverso. Il primo passo sarebbe riconoscersi reciprocamente come avversari che appartengono alla stessa specie. C’era una volta l’umanità. Ora il nemico è animale da sopprimere. Così la pace è impossibile. Non è invidiabile l’èra dei cessate-il-fuoco, quando sai che prima o poi qualcuno lo riattizzerà. Non rassegnarsi a questa terribile moda è l’urgenza del momento.

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