L’impossibile rinascita del Libano

Al controllo passaporti non c’è praticamente nessuno. In fila ci sono unicamente i pochi passeggeri del nostro volo da Milano. Ormai l’aeroporto Rafic Hariri di Beirut è collegato solo grazie alla compagnia di bandiera libanese, che vola nonostante i ripetuti attacchi israeliani sulla città, che si sono intensificati dalla metà di ottobre rispetto all’inizio dell’operazione contro Hezbollah, il braccio armato degli sciiti in Libano, lo scorso settembre. Dal sud del Libano, pesantemente bombardato perché roccaforte delle milizie del «partito di Dio» (questo il significato di Hezbollah), le attività si sono spostate man mano anche nella Valle della Beqaa, quella che porta verso la Siria, e nella vicina Baalbek, dove ci sono meravigliose rovine e i resti archeologici di epoca romana, anche questa una zona considerata ora particolarmente a rischio per la sua concentrazione di sostenitori del gruppo sciita. Il piccolo Libano, grande più o meno come la Svizzera, è così ridiventato in poche settimane una delle zone più tormentate del medio Oriente. E cresce il timore che nel Paese possa scoppiare ancora una nuova guerra civile, con conseguenze imprevedibili per la sua fragilità economica, politica e sociale. Dopo l’esplosione di un silos al porto di Beirut il 4 agosto del 2020, dove erano immagazzinate tonnellate di nitrato di ammonio, la città non si è più ripresa. Oltre 200 i morti, migliaia i feriti e almeno 250 mila le abitazioni distrutte. Una tragedia sulla quale si erano riversati da subito poche certezze e molti dubbi (c’erano davvero solo sostanze per fertilizzanti o era un deposito di Hezbollah? È stato Israele a colpire?). Uno dei pochi dati sicuri: la fuga, ancora una volta, di migliaia di libanesi verso altri Paesi, verso ipotesi di normalità. Il risultato? La città si è svuotata, ha visto chiudere negozi, uno dopo l’altro, come attività, ristoranti, alberghi, mentre centinaia di appartamenti del centro sono da allora rimasti sfitti e chiusi.

Conosciamo il Libano dal 2003, da quando cioè cominciava a credere di potersi allargare al turismo europeo e ospitava per questo una piccola fiera del turismo alla quale erano invitati giornalisti e professionisti del settore. Nonostante la presenza dei segni delle violenze che avevano insanguinato le sue strade – c’erano edifici coi muri crivellati e palazzi che portavano i segni della guerra civile (1975-90) – il Paese sperava di poter finalmente usare le sue ricchezze artistiche e il suo patrimonio culturale per attirare a sé i vicini europei, per tornare ciò che era prima della guerra civile. Con un tessuto sociale quasi per metà cristiano (prima del conflitto i cristiani erano di più) e per metà musulmano, sia sunniti che sciiti, a cui si aggiungono quote minori di drusi e altri gruppi religiosi, questa Nazione avrebbe potuto rappresentare un esempio di convivenza in tutto il medio Oriente.

Questa mescolanza, varietà che rende caratteristico il Libano allo stesso tempo lo costringe a restare intrappolato nei suoi stessi simboli, ai quali torna ad aggrapparsi nei momenti di crisi, probabilmente nella convinzione di poter rinsaldare la propria identità, minacciata da un presente senza equilibrio. Così è facile trovare ovunque – nelle strade di Beirut – immagini e murales delle icone politiche e religiose del passato, tutte accompagnate da destini tragici, e ancora viste come idoli. Dal leader cristiano delle forze libanesi Bashir Gemayel, eletto presidente nel 1982 e mai entrato in carica perché ammazzato poco prima, all’ex premier sunnita Rafic Hariri, a cui sono dedicati monumenti nazionali e una statua vicino al lungomare che ricorda il punto in cui fu fatta esplodere la sua auto nel 2005, fino al leader sciita di Hezbollah Hassan Nasrallah, ucciso di recente da un blitz israeliano. Ogni immagine ricorda il destino tumultuoso di questo Paese. Paese che fatica a liberarsi del peso dei ricordi, perché incapace di svincolarsi dai protagonisti di ieri, alcuni dei quali ancora attivi nella vita politica odierna. Le istituzioni, ostaggio dei giochi di potere, e la frustrazione del popolo hanno fortemente indebolito il cosiddetto «Paese dei cedri», che ha sì più volte provato a risollevarsi e rinascere, perché credeva in se stesso, ma poi non ce l’ha fatta. Almeno non completamente.

O perché scoppiavano guerre con Israele, come quella del 2006, o perché nel frattempo i libanesi che hanno potuto farlo si sono costruiti una vita all’estero, facilitati anche dal «trilinguismo». A differenza di altre nazioni mediorientali infatti i libanesi, oltre all’arabo, che è la lingua ufficiale, parlano spesso correntemente anche l’inglese e il francese. Specialmente coloro che appartengono alle fasce più privilegiate e istruite della popolazione ne approfittano espatriando verso Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Emirati Arabi. Destinazioni dove il peso della politica non complica la vita come qui, e non la strozza con le sue pretese di fedeltà ideologiche o religiose. Ha cambiato volto anche la Corniche di Beirut, la passeggiata sul lungomare solitamente affollata la sera nelle stagioni più calde, dove molte famiglie coi bambini piccoli approfittano del fresco mentre intorno scorre la vita di lusso in ristoranti e night occidentali frequentati da ricchi stranieri e libanesi. Ma questo era prima. Ora ci sono moltissime tende improvvisate che ospitano gli sfollati dal sud. Un milione quelli che si sono riversati in altre zone del Libano, e soprattutto nella capitale. Tante famiglie, quelle con maggiori disponibilità economiche, hanno trovato posto negli alberghi del centro e dei quartieri più sicuri, o in centri messi a disposizione per loro, ma chi non dispone di sufficienti mezzi è costretto a vivere in auto cariche di materassi, coperte, abiti e di quel poco che si è potuto portare via, scappando dai bombardamenti israeliani. Stanno lì da settimane ormai, mentre gente del posto porta loro cibo, acqua e qualche bene di conforto, ma restano comunque abbandonati a loro stessi. Una situazione che esaspera gli animi di molti libanesi, già messi a dura prova negli anni passati del gran numero di rifugiati siriani, che si erano riversati qui subito dopo lo scoppio della guerra nella confinante Siria. Le organizzazioni non governative e l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati, sta prendendo contatto con loro, ma il tutto avviene con con estrema difficoltà, perché tra molti serpeggia il timore che in mezzo agli sfollati ci siano sostenitori e miliziani di Hezbollah.

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