Lo spettro di un aumento delle attività dell’internazionale del terrore crea preoccupazioni in tutta l’area geopolitica
Anche nel nuovo Bangladesh, guidato dal premio Nobel Mohammed Yunus, hanno commemorato il 7 ottobre. Per ricordare le vittime civili della atroce strage perpetrata da Hamas e chiedere il ritorno degli ostaggi ancora detenuti a Gaza? Non proprio. Ad essere commemorata, anzi celebrata, è stata l’operazione Tufan Al Aqsa: che è il nome dato da Hamas e dai gruppi di tagliagole al soldo dell’Iran come Hezbollah e Houthi, alla strage di civili di cui sopra. La celebrazione si è tenuta all’Engineering Institute di Dacca e l’evento è stato organizzato dall’organizzazione integralista Al Markazul Islami, tristemente nota per i suoi legami con Al Qaeda. Ad arringare i partecipanti sono stati alti dirigenti di Hamas, tra cui lo sceicco Khaled Qaddoumi, portavoce dell’organizzazione, e lo sceicco Khaled Meshaal, presidente dell’Ufficio politico di Hamas, entrambi residenti a Doha. All’evento erano presenti anche figure islamiste di spicco del Pakistan, come Mufti Taqi Usmani e Maulana Fazlur Rehman, entrambi influenti nei circoli più radicali del Paese, oltre a una rappresentanza dei talebani.
La riunione di questa combriccola di terroristi dichiarati e di simpatizzanti assortiti ha suscitato serie preoccupazioni a Nuova Delhi e non solo. Le agenzie di sicurezza indiane sono state messe in stato di massima allerta, ma lo spettro di un rinnovato aumento delle attività dell’internazionale del terrore nella regione crea preoccupazioni in tutta l’area geopolitica. I segnali sono, d’altra parte, tutt’altro che rassicuranti. Negli stessi giorni in cui si è tenuto il raduno di jihadisti, difatti, la minoranza induista del Paese celebrava la festa del Durga Puja, nove giorni e nove notti dedicate al culto della dea Durga. Episodi di violenza, omicidi, case e templi bruciati, un vero e proprio pogrom ai danni della minoranza induista (e anche di quella cristiana) sono cominciati subito dopo l’insediamento del nuovo Governo; in occasione del Durga Puja la situazione è peggiorata sempre più. Gruppi islamici radicali hanno marciato per le strade protestando contro le celebrazioni pubbliche e opponendosi alle festività nazionali per la festa induista. È stata presentata una richiesta in sedici punti che chiede varie restrizioni alla libertà di religione e di credo degli induisti.
Non solo, gli stessi gruppi radicali sponsorizzati dal Governo hanno intimato agli induisti di andarsene entro sette giorni o di affrontare la violenza. Gli incidenti includono molestie aperte a donne di religione induista, vandalismo di case e luoghi di culto, l’incendio del Centro culturale Indira Gandhi, con i suoi 21’000 libri, e di case e attività commerciali appartenenti a cittadini di religione induista. Sono stati segnalati anche diversi casi di funzionari pubblici di religione induista rapiti e costretti in seguito a dimissioni forzate. E questo è – purtroppo – solamente l’inizio. Nel nuovo Governo ad interim di Dacca, che dicono rischi di essere ad interim come il Governo dei talebani, siedono in parti uguali integralisti islamici più o meno legati al Pakistan, membri dell’esercito e, sorpresa, individui legati in un modo o nell’altro a Washington. A cominciare dal premio Nobel per la pace Yunus (accusato in patria di corruzione e di chiedere un interesse del 28% sui prestiti della Grameen Bank) legato a doppio filo alla Fondazione Clinton. E a quanto pare i due rappresentanti degli studenti che sono stati inseriti nel gabinetto di Yunus avevano avuto, nei mesi precedenti alla «rivoluzione» che ha rovesciato il Governo dell’ex-premier Sheikh Hasina, una serie di incontri con rappresentanti dei servizi segreti pakistani e americani a Doha, in Qatar, dove siede il fior fiore dei rappresentanti del terrorismo internazionale. A Dacca e dintorni si dice difatti, e si diceva da mesi, che il cambio di regime sia stato fortemente voluto da Washington: «Sarei potuta rimanere al potere se avessi ceduto agli Usa l’isola di Saint Martin, consentendo così agli americani di controllare la Baia del Bengala» ha detto Hasina, che già nella scorsa primavera denunciava le pesanti ingerenze americane negli affari del Paese.
Le dichiarazioni della ex-premier erano state smentite dal portavoce del Dipartimento di Stato americano Andrew Miller, ma le pesanti ingerenze americane nelle elezioni in Bangladesh dello scorso gennaio sono un dato di fatto. Il gran rifiuto di Hasina a proposito della base militare avrebbe fatto arrabbiare Washington, che avrebbe sfruttato l’opportunità di piazzare in Bangladesh un Governo più accomodante. Un Governo che garantirebbe non soltanto il perseguimento degli interessi strategici americani nella regione ma anche – attraverso una potenziale ripresa del terrorismo, dei profughi e dell’instabilità al confine indiano (fino a oggi giudicato «sicuro») – la possibilità di tenere Nuova Delhi sotto controllo ogni volta che le decisioni del Governo indiano si rivelano contrarie agli interessi statunitensi nella regione e non solo.