Nel suo ultimo romanzo, "Il fuoco che ti porti dentro", Antonio Franchini fa i conti con sua madre e con la storia della sua formazione in un corpo a corpo ininterrotto
C’è un ritorno molto forte di una letteratura famigliare dal vero, non solo in Italia, da Il posto del Premio Nobel Ernaux, Chi ha ucciso mio padre, struggente racconto working class di Édouard Louis, fino ai libri molto premiati di Magrelli, Trevi, Voltolini, il notevole La traversata notturna di Andrea Canobbio (La nave di Teseo). Una letteratura che intreccia memoriale, conflitto generazionale, dinamiche tra le classi sociali, e racconta non solo le lacerazioni dei complessi rapporti parentali ma soprattutto le ferite di un’epoca, le storie personali, le vicende private dentro l’agone della Storia e gli affreschi, le metamorfosi sociali. Ma sono anche rese dei conti, bilanci, modi per dare senso e forma alla propria vicenda biografica.
Come scrive Massimo Recalcati in Quel che resta del padre (Raffaele Cortina editore), questo rapporto «è custodia del mistero della vita e della morte, è la responsabilità dell’eredità e della trasmissione», e «ciascuno di noi proviene da un orizzonte che non ha scelto e lo ha determinato». I libri che ho citato partono proprio da questo mistero, da questa eredità, così come Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini (Marsilio, 2024), storia di Angela, la madre dell’autore che sin dall’incipit viene raccontata in tutta la sua sgradevolezza con un cinismo narrativo che da una parte cerca l’effetto verità, stabilisce una distanza, dall’altra serve all’autore anche per creare un personaggio forte, tragico, che inevitabilmente diventa romanzesco.
Angela Izzo come i migliori personaggi di fiction è cupa, maligna, «si macera nel conflitto permanente», pervasa da un nichilismo esistenziale spiccatissimo, una che considera l’amicizia come «una forma di dipendenza, un indebolimento della personalità», e «ha bisogno di odiare come di respirare», un carattere da far invidia ai grandi scrittori ottocenteschi, quindi capace di produrre letteratura con il suo temperamento di vita. Inoltre, la figlia del muratore che sposa il commercialista più vecchio di lei di vent’anni da giovane è bella, «fianchi larghi e gran seno, capelli neri mossi, bocca carnosa», ma anche «friccicarella», che lei interpreta di volta in volta come «maliziosa» o «zoccola». Ma inevitabilmente la sua storia s’innerva e s’intreccia con quella dell’autore e del suo lessico famigliare, sullo sfondo di una Napoli ancora comunitaria degli anni Sessanta e Settanta, viva nel linguaggio e nelle sue forme dialettali, familista e carnale, un mondo palese esibito in un teatro dal vivo di condomini dove appaiono personaggi bizzarri e surreali come quelli portati sul palcoscenico da Eduardo o nelle sceneggiate napoletane di Merola.
La storia pendolareggia tra Napoli e Milano, la città dove l’autore attualmente vive, e dove poi andrà a vivere anche sua madre, inconciliabili come patrie di due mondi culturali diversi che nel libro riverberano nei fatti, nei comportamenti e nei costumi. La lingua di Franchini è esatta, avanza per economia di mezzi, essenziale ed espressiva, mischiando descrizioni e dialoghi, o lunghe conversazioni dialettali molto espressive, però sempre misurati, mai macchiettistici, ed è più colloquiale quando – descrivendo aspetti sociologici e luoghi comuni, abitudini, mode, comportamenti – assume toni quasi da reportage sociale.
Il romanzo si apre poi al racconto del parentado, entrano in scena zie, come Vittoria, l’avvocato Alfonso Alterio, il padre dell’autore Eugenio, silenzioso ed elegante, «tutto un rigore di ossa, di tendini, di stoffe, di portamento», sciupafemmine seriale, un altoborghese «cresciuto in condizione agiata, ma con curiosità intellettuali e gusto per l’arte», lo zio Francesco, avvocato di grido a Milano, l’unica persona della famiglia nella quale «il Nord e il Sud si fondono». C’è anche il conio di un’epoca, le automobili lucidate a specchio con pelli di capretto dai capifamiglia, i tinelli coi televisori dagli schermi opachi, appartamenti nei quali «i salotti stanno quasi sempre con le serrande abbassate, sospirano nell’odore di chiuso».
Nel libro c’è anche un romanzo di formazione in fieri, intellettuale e generazionale, dell’uomo dell’editoria e scrittore che conosciamo, tra i migliori della sua generazione, ma è il corpo della madre che resta sempre al centro della narrazione nella sua antropologia comportamentale, nel quale l’autore vede e detesta quel nichilismo individualistico e qualunquista tipico dell’Italia, quello che gli fa scrivere in un passo la frase audace «mi fa schifo chi mi ha messo al mondo», che risuona un po’ troppo caricata d’effetto, l’autarchia di vivere senza viaggiare e conoscere, il razzismo e l’odio per i francesi, inglesi e tedeschi, «erede dei sanfedisti scatenati contro i giacobini del cardinale Ruffo», e «l’ennesima figlia, frustrata e invelenita, della reazione».
Lo dice esplicitamente a tre quarti del romanzo quando parla del «disprezzo intellettuale» nei suoi confronti: «Ne detesto il qualunquismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggio dell’ignoranza, il rancore, il coacervo di mali nazionali che lei incarna in blocco». Ma Angela è anche figlia incolpevole del suo tempo e incarna tutte le disgrazie della sua storia nella Storia che sta in questo magistrale ritratto del figlio: «Le donne come mia madre, che venivano dalle campagne, da paesi dimenticati e da una miseria ostentata come un certificato di garanzia, tutti gli esseri femminili della mia famiglia materna hanno disprezzato l’amore prima di qualunque altro sentimento, la gentilezza più di qualunque altra virtù, le altre donne assai più di qualsiasi maschio».
Franchini fa i conti con sua madre e con l’epoca della sua formazione in un corpo a corpo ininterrotto, e la scrittura liberatoria diventa la «ferita da medicare», senza «nessuna resa postuma», certo che «chi vuole tentare di capire una persona vera essendo consapevole che conoscere veramente non è possibile e che la persona reale gli sfuggirà comunque, può provare a raccontarla come il personaggio di un romanzo». E alla fine onora il vero desiderio di sua madre, quello di «recitare una parte anticonformista e scorretta».