Il dialetto non è (ancora) lingua nazionale

Nel nostro Paese la discussione intorno alle lingue è ciclica come le fasi lunari. Anzi, non è peregrino sostenere che la questione s’intreccia con il complesso cammino dell’edificazione dello Stato federale (Costituzione del 1848). Sul piano giuridico la parità era data per garantita (art. 109 «la tedesca, la francese e l’italiana sono lingue nazionali della Confederazione», cui si aggiunse nel 1938 il romancio). Tuttavia, all’atto pratico, ovvero nella redazione di leggi e regolamenti, le cose cambiavano. La crescita nel corso degli anni dei servizi dell’amministrazione centrale, dell’esercito e delle aziende che avevano come mandato di coprire l’intero territorio nazionale (prima le poste e poi le ferrovie) era motivo, presso le minoranze, di ricorrenti irritazioni e rivendicazioni. E questo perché la parte linguisticamente maggioritaria era anche la parte che controllava le principali leve del potere. Economicamente la Svizzera tedesca primeggiava (e tuttora primeggia), con ovvie ricadute sui rapporti di forza politici e sulle relazioni tra confederati. Di qui un perdurante attrito con i Cantoni germanofoni, accusati da romandi, svizzero-italiani e romanci di protervia e sordità nei confronti delle legittime richieste dei figli cadetti di mamma Elvezia… Ma il castello delle accuse andava anche oltre. Nel secondo dopoguerra a taluno questa situazione ricordava la dinamica colonialista-colonizzato, una formula allora usata dagli studiosi che si occupavano del terzo mondo e del processo di decolonizzazione. Nel 1982 fece scalpore la denuncia contenuta in un pamphlet intitolato La Romandie dominée: quel che stava accadendo in terra romanda poteva qualificarsi come una «colonizzazione a freddo» condotta dalle centrali economiche, politiche e culturali che avevano sede sulla sponda orientale della Sarine. E il Ticino? Nessuna speranza, sarebbe presto diventato Disneyland… D’altra parte una diagnosi analoga, ma con minore vis polemica, era già stata formulata da Angelo Rossi nel 1975, sotto il titolo di «un’economia a rimorchio».

Le schermaglie linguistiche sono insomma riconducibili in buona parte ai rapporti di forza e ai sottostanti mutamenti socio-economici. Lo comprova la marcia trionfale dell’inglese nelle scuole d’oltralpe, con il conseguente declassamento delle altre due lingue nazionali. Allorché, alcuni anni or sono, un Cantone come Zurigo imboccò questa via, le reazioni nei Cantoni romandi furono veementi, con in prima fila il battagliero giornalista José Ribeaud (1935-2019), il quale nei suoi interventi non esitò a stigmatizzare l’inclinazione dei più forti (i direttori svizzero-tedeschi della pubblica educazione) a gettarsi nelle braccia dell’anglofonia, relegando così in secondo piano il francese. Non solo: Ribeaud riteneva che l’amore degli svizzeri-tedeschi per lo «Schwitzerdütsch» avesse oltrepassato il perimetro in cui abitualmente un dialetto vive (la cerchia familiare e amicale, le relazioni informali) per elevarsi al ruolo di quinta lingua nazionale, la più diffusa e tenacemente coltivata, usata nei Parlamenti cantonali e nei media elettronici, privati e pubblici. «Per cortesia con noi parlate tedesco!», questo il perentorio invito che Ribeaud rivolse allora ai suoi connazionali.

Anche gli svizzeri-italiani hanno sempre dovuto alzare la voce per affermare le loro ragioni in quanto titolari di una lingua nazionale, specie negli uffici federali, nei comitati partitici e sindacali, nelle conferenze intercantonali, nei musei, nell’insegnamento (cattedre di lingua e letteratura italiana, diploma di maturità), nelle campagne pubblicitarie dei grandi gruppi commerciali e negli spot in tv. Sta di fatto che l’onda dialettale («Mundartwelle») non accenna a decrescere; anzi, come tutti possono constatare appena smontati dal treno a Zurigo, Berna o Basilea, il «buon tedesco» («Hochdeutsch, Schriftdeutsch») è quasi scomparso dal paesaggio linguistico della Svizzera tedesca. Un’esondazione che non agevola il dialogo tra maggioranza e minoranze. Un altro segno preoccupante è la tendenza ad esprimersi in dialetto da parte di politici d’alto rango (compresi alcuni consiglieri federali), personalità accademiche, funzionari pubblici, moderatori radio-televisivi. Figure che dovrebbero parlare a tutti, farsi capire da tutti, e non soltanto dalla comunità di provenienza. Ma sono rimostranze destinate a cadere nel vuoto.

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