Il bello delle discipline letterarie e umanistiche è che presuppongono l’esistenza di fenomeni da interpretare, e che spesso le interpretazioni portino a modi diversi di concepire la realtà. È un po’ come quando si ha una storia da raccontare, e ci si chiede quale sia il miglior modo per farlo. Per essere efficace, una storia deve possedere coerenza e coesione, ma per essere interessante ci vuole anche altro: c’entra il modo in cui la si racconta.
A confezionare una storia interessante c’è riuscito sicuramente Jacopo Veneziani, storico dell’arte e divulgatore, che ha presentato il suo monologo teatrale intitolato Parigi in occasione della recente edizione di Sconfinare Festival, rassegna culturale bellinzonese. Veneziani ha ripercorso la storia dell’arte della prima metà del Novecento focalizzandosi su alcuni dei protagonisti che hanno reso la Parigi di quell’inizio secolo l’epicentro dell’arte mondiale.
Riuscire a riassumere, in un monologo di un’ora e mezza, i lineamenti di cinquant’anni di arte non è impresa facile, considerando due guerre mondiali che, con il loro lascito di traumi e speranze, hanno contribuito non poco a rimescolare le carte in tavola, e non solo nell’arte. La materia potrebbe tranquillamente essere diluita in un corso universitario della durata di un anno, grazie al quale approfondire, quel tanto che basta, le figure chiave e i motivi principali dell’arte moderna. Da abile divulgatore, però, Veneziani ha confezionato una storia abbastanza complessa per non essere semplicistica, ma sufficientemente accessibile per essere fruibile da un pubblico generalista. E, con l’aiuto di un disegnatore che, mentre avanzava nel racconto, abbozzava vignette suggestive su uno schermo gigante, ha trasmesso passione e conoscenza in modo disinvolto, come si addice a chi padroneggia l’arte del monologo teatrale.
Il racconto, fluido e sicuro, si è abbandonato alle pause nei momenti adatti, concedendosi qualche digressione calcolata, e provocando quelle inflessioni di ritmo necessarie a mantenerne l’intensità. Si è trattato, insomma, di una narrazione piacevolmente istruttiva che ci ha portati all’epoca delle avanguardie e degli atelier sgangherati di Montmartre, delle pennellate infuocate di Matisse, delle forme scomposte di Picasso e delle figure allungate di Modigliani.
Veneziani si è inoltrato nel buio della Prima guerra mondiale quel tanto che basta per mettere in luce l’esistenza di circuiti artistici undergound e locali clandestini, aperti tutta la notte nonostante l’imposizione del coprifuoco. Del primo dopoguerra, che ha accompagnato l’arrivo del Surrealismo, ha ricordato una cena memorabile presso l’Hotel Majestic, dove si ritrovarono allo stesso tavolo Igor Stravinsky, Pablo Picasso, Serge Diaghilev, James Joyce e Marcel Proust. Gli anni Venti, chiamati ruggenti per l’ottimismo pervasivo che li ha attraversati, terminarono con il crollo di Wall Street. È la grande Depressione, preludio all’ascesa dei totalitarismi e allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Ma anche quando, nel 1940, Parigi soccombe all’occupazione nazista, la storia dell’arte non si ferma: alcuni artisti sono rimasti e hanno realizzato le loro opere in un ambiente semi-clandestino. Erano gli anni in cui Jean-Paul Sartre pubblicava L’essere e il nulla e con Simone de Beauvoir metteva le basi di quell’esistenzialismo che avrebbe dominato la scena culturale parigina nell’immediato dopoguerra.
Alternando piacevolmente ritratti di artisti e riferimenti ai movimenti pittorici, Veneziani non ha trascurato aneddoti che hanno aggiunto vivacità, come quello che riguarda Lolo, un asino che assurge a rappresentante di un nuovo movimento artistico.
L’animale, che apparteneva al proprietario del noto cabaret Au lapin agile, è stato l’inconsapevole protagonista di una beffa orchestrata dal giornalista Roland Dorgelès e dal suo amico, pittore e critico d’arte, André Warnod. Esasperati dalla crescente diffusione di movimenti artistici che finivano per – ismo (cubismo, espressionismo, futurismo, surrealismo, eccetera), i due hanno legato un pennello alla coda del somaro e, recuperata una tela pulita, ha lasciato che il quadrupede, con i movimenti della coda, la riempisse con colori accesi e pennellate ardite. L’asino diventato pittore è stato poi battezzato con il nome di Joachim-Raphael Boronali (anagramma di Aliboron, nome di un asino delle fiabe di La Fontaine), e il risultato dell’esperimento, inviato alla commissione che presiedeva il Salon des Indépendants, è stato accolto ed esposto nel 1910. I critici intanto si chiedevano chi fosse questo pittore il cui nome evocava una possibile origine ispano-italica, ravvisando altresì sorprendenti affinità cromatiche e stilistiche con Vincent Van Gogh. Scimmiottando lo stile roboante del manifesto futurista, Dorgelès, nel frattempo, si è cimentato nella scrittura di un manifesto per un movimento che ha chiamato, coerentemente con il suo intento iniziale, eccessivismo.
Una volta svelata, la beffa ha regalato ai suoi autori una buona dose di soddisfazione, essendo riusciti a prendersi gioco della critica, e dimostrando che in fondo anche un asino può diventare il capofila di una scuola pittorica! L’irriverenza dello scherzo non ha arrestato lo sviluppo dell’arte moderna, ma quantomeno ha rivelato come in quell’inizio secolo l’idea stessa di arte si muoveva sul confine sottile fra innovazione e provocazione, abbracciando nuovi modelli di realtà che si ispiravano al relativismo, al flusso di coscienza e alla nascente psicanalisi.
Fra i molti artisti inclusi nel monologo di Veneziani, è mancato però il nome di Marcel Duchamp (1887-1968). È pur vero che, a partire dal 1915, Duchamp ha vissuto spesso lontano dall’Europa, prevalentemente negli Stati Uniti, ed è stato veramente iconico solo a partire dagli anni Sessanta, quando la pop art e i movimenti di arte concettuale lo hanno preso come modello. E dire che la sua opera e la sua filosofia di vita, maturate nella prima metà del secolo, mostrano una certa affinità con lo spirito che anima la beffa dell’asino di Montmartre. A Duchamp, infatti, non interessava essere considerato un artista, e non fingeva neppure di esserlo. Anzi, nelle interviste che rilasciava, amava definirsi un anartista: un neologismo coniato per esprimere il suo profondo disinteresse per l’arte della sua epoca, che considerava troppo convenzionale. Né pittore, né asino, e neppure artista. Un anartista, dunque.