Ma chi è questo sosia?

Der Doppelgänger (Il sosia, ndr), un’opera per voci soliste, quartetto vocale e orchestra di Lucia Ronchetti, è in cartellone da inizio settembre al Luzerner Theater nell’ambito del Lucerne Festival. Si tratta di una coproduzione con gli Schwetzinger SWR Festspiele, durante i quali, in primavera, ha avuto luogo la prima assoluta. Lucia Ronchetti (classe 1963, e dal 2021 direttrice della Biennale Musica di Venezia) è ormai considerata una delle compositrici contemporanee di punta, tanto che altre sue opere sono già state rappresentate in prestigiosi teatri quali la Staatsoper di Berlino, la Semperoper di Dresda, l’Opera di Francoforte e il Nationaltheater di Mannheim.

Il libretto di Der Doppelgänger è di Katja Petrowskaja, che nel 2013 aveva vinto il rinomato concorso Ingeborg Bachmann. Al suo primo lavoro per l’opera, la scrittrice ucraina si è ispirata dunque alla grande letteratura, nella fattispecie al secondo romanzo di Dostojewski, Il sosia, capolavoro che continua ad affascinare critica e lettori. Compositrice e librettista indagano in perfetta intesa una situazione semplice e complessa, reale e assurda a un tempo, chinandosi sulla satira sociale e, in particolare, sulla psicologia, due aspetti rilevanti nel romanzo, qui reinterpretati per sottili immagini sonore e verbali che ne sottolineano da un lato l’azione drammatica e dall’altro la poesia.

L’opera di Lucia Ronchetti è un concentrato di parole e suoni che offre svariate possibilità alla Luzerner Sinfonieorchester diretta da uno specialista, Tito Ceccherini. Lungo una partitura che è un collage di suoni minimalisti e rumori, ma anche di frammenti di citazioni di danze e canzoni popolari, maestro e orchestra riescono a coinvolgere il pubblico per un’ora e un quarto. Una partitura che sfrutta appieno le potenzialità di tutti gli interpreti, ai quali vengono richiesti il canto recitato, la voce in falsetto, suoni strozzati o ripetitivi, gemiti e rumori, dunque tecnica ferrea ed espressività, nonché una buona capacità di resistenza, coordinamento e immedesimazione.

Soprattutto i due protagonisti riescono ad esprimere la complessa simbologia del testo: Peter Schöne, coinvolgente e coinvolto nel ruolo del costantemente angosciato Jakow Petrowitsch Goljadkin, funzionario subalterno innamorato di Klara Olsufjewna, la figlia del superiore; Christian Tschelebiew, il sosia, figura curiosa che non solo assomiglia fisicamente a Goljadkin, ma porta anche il suo stesso nome, proviene dal suo stesso paese e lo segue in ogni luogo, non esitando a metterlo in ridicolo e a umiliarlo anche davanti ai colleghi e a coloro che contano a Pietroburgo. Bravi anche Olivia Stahn nei panni di Klara, Robert Maszl in quelli del dottor Rutenspitz, Emanuel Marjal nel ruolo di Petruschka, il domestico di Goljadkin.

Al regista David Hermann riesce la perfetta messa in scena di una insinuante trama che è anche un raffinato accostamento di Gogol, Kafka e Beckett, vale a dire di assurdo, umorismo, ironia, dramma e astrazione. Si viene immediatamente confrontati con interrogativi più che legittimi. Ma chi è questo sosia? Realtà, illusione, proiezione di determinati aspetti della coscienza del protagonista? Essenziale, ma adeguata la scenografia di Bettina Meyer (Light Design di Clemens Gorzella, costumi di You-Jin Seo), un’ambientazione decisamente geometrica consistente in un cubo a scomparti dimensionabili e senza accessori.

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