A colloquio con l’artista statunitense, che propone un insolito pas de deux tra essere umano e natura
Deep Cuts, ultima tagliente ed euforizzante utopia eco queer del coreografo statunitense basato a Parigi Bryan Campbell, ci spinge a osservare la natura come non avevamo mai fatto prima. Durante lo spettacolo, la tenerezza si unisce alla violenza in un pas de deux improbabile tra antropocene ed ecosistema, sorta di battaglia all’ultimo sangue per trovare un equilibrio dal sapore utopico. Sì, perché quello che caratterizza l’universo artistico di Campbell è proprio la messa in scena di utopie che permettono al pubblico di confrontarsi con i propri limiti, con stereotipi e false certezze che inquinano in modo furtivo il loro quotidiano.
Deep Cuts (tagli profondi, ndr) nasce da un incontro inaspettato, durante una passeggiata in una foresta, tra il coreografo e un albero. Improvvisamente, una sorta di furia inaspettata lo spinge a colpirne ripetutamente il tronco con un ramo. Anziché reprimere questa sensazione di benessere, ma anche di rabbia, Campbell decide di ritrascriverla su scena, di affrontare i sentimenti positivi ma anche negativi, di dominazione e superiorità, che lo legano al mondo fisico.
Sorta di coreografia romantico-erotica-forestale in chiave queer, Deep Cuts esplora il rapporto complesso che gli esseri umani intrattengono con l’ecosistema. Amore e violenza si alternano su scena in modo inaspettato in un andirivieni BDSM di emozioni a fior di pelle. Campbell balla, canta e urla accompagnato da musiche pastorali barocche che trasforma in inni di rivolta contro una società che ci vorrebbe tutti e tutte mansueti e sottomessi. Deep Cuts punge, morde e ferisce come uno schiaffo che si trasforma in carezza.
Abbiamo avuto l’occasione di discutere con il coreografo del suo universo artistico in appendice al Festival de la Bâtie di Ginevra.
Cosa la ispira artisticamente e la spinge a creare?
Mi piacciono molto le domande alle quali non so dare una risposta, o per lo meno una risposta univoca. Artisticamente, ho bisogno di confrontarmi con tematiche ricche, che mi stimolino e ispirino sul lungo termine.
Più in particolare, mi piace molto confrontarmi con pratiche artistiche che non conosco, perdermi per poi ritrovarmi. In Deep Cuts, per esempio, affronto il mondo del cantautorato. Non è la prima canzone che scrivo, ma è la prima volta che creo uno spettacolo a partire da canzoni originali. Per ritornare a quello che mi ispira, per Deep Cuts, centrale è stato l’incontro con un albero che mi ha stimolato intellettualmente, ma anche da un punto di vista corporeo.
Come unire erotismo e violenza in un rapporto che implica il non umano, o ancora, come rileggere l’ecologia alla luce di questo rapporto? Quello che ho provato a livello emotivo e corporeo durante questo incontro è stato molto importante nella costruzione del mio spettacolo. Tutto ciò si trasforma in terreno fertile di riflessioni, in un condensato di emozioni che ricordo di aver provato da bambino e che continuo a provare ancora oggi.
Deep Cuts ci fa riflettere sulla relazione, spesso sadica, che intratteniamo con l’ecosistema (ma non solo). Da dove nasce quest’idea e qual è il suo rapporto con la natura?
Indubbiamente la natura mi ispira. Vivo in città, a Parigi, ma faccio parte di alcune associazioni queer che organizzano ritrovi nella natura. Si tratta di luoghi che incarnano lo spirito di un’intera comunità. Queste associazioni sono state molto importanti non solo per la genesi di Deep Cuts, ma anche per me in quanto individuo e artista.
Sono cresciuto accanto a una piccola foresta che da bambino vedevo come un laboratorio dell’immaginario. Mi immaginavo già artista, coreografo, sognavo i miei spettacoli futuri. Giocavo da solo, ma la mia creatività non aveva limiti. Per questo mi piace ritrovarmi solo quando creo, fare delle residenze anche non istituzionali ma autofinanziate durante le quali parto solo in bicicletta in mezzo alla natura.
Che ruolo occupa il suo vissuto nella creazione degli spettacoli?
Il mio lavoro è sempre più personale e a volte frontalmente autobiografico. In molti dei miei spettacoli racconto la mia vita, anche se Deep Cuts è leggermente romanzato. A volte il personaggio su scena mi rappresenta, altre volte no, a volte invece realtà e finzione si mescolano.
Quello che mi interessa è mettere in scena qualcosa di personale, perché per me è l’unico modo per essere sincero. Il mio approccio coreografico deve essere ancorato alla mia esperienza personale per avvicinarsi a una sorta di verità che possa difendere e rappresentare. Questo mi permette di attivare una specie di intimità con il pubblico, di coinvolgerlo e farlo accedere al mio mondo.
Che relazione intrattiene con il pubblico?
Mi piace scuoterlo, ma anche sedurlo. Mi rendo conto che nei miei spettacoli c’è molto umorismo e una buona dose di seduzione. Affronto tematiche crude ma in modo a volte più «accessibile» per le persone che hanno bisogno che la «scossa» sia un po’ più dolce. Penso sempre al pubblico quando creo le mie coreografie, che sono al contempo violente e seducenti.
L’umorismo, l’autoironia, la presa in giro «camp» sono effettivamente molto preseti in Deep Cuts. Può dirci qualcosa di più a proposito?
Sono una persona molto insicura e l’umorismo mi permette di rassicurarmi dicendomi che il pubblico mi ama. Se lo faccio ridere deve per forza amarmi. Se consideriamo l’umorismo in chiave camp come una sorta di travestimento drag, allora sì, vedo dei legami con il mio lavoro coreografico.
Potrei immaginare una versione di Deep Cuts in cui insisto ancora di più sull’aspetto camp attraverso delle performances drag king, in cui esagero l’aspetto virile, da boscaiolo, del mio personaggio. Anche se lo esprimo in modo meno caricaturale, quello che condivido con il drag è la voglia di sovvertire e decostruire gli stereotipi eteropatriarcali proponendo la mia personale utopia di genere.
Quello che mi piace particolarmente in Deep Cuts è la rappresentazione scenica di una mascolinità che si prende allegramente gioco e che decostruisce gli stereotipi che gli sono associati. Il suo corpo, atipico e ribelle, sembra infatti rivendicare la sua differenza. È d’accordo con questa interpretazione?
Anche nelle mie creazioni precedenti mi sono interessato e ho incarnato le differenti forme di potere di cui la mascolinità fa parte. Nella mia prossima creazione, che sarà un duo, lavorerò su Moby Dick di Herman Melville, un’opera basata quasi esclusivamente su personaggi maschili.
Per la rappresentazione scenica sono stato guidato dalla lettura che Camille Paglia, scrittrice femminista americana, fa del romanzo. Si tratta di un romanzo in cui il tema della mascolinità è centrale. Anche se non ho ancora deciso esattamente come, nel mio prossimo spettacolo continuerò a esplorare questa tematica, magari cimentandomi nell’arte drag (drag king).
C’è qualcosa, nella scena artistica contemporanea che la disturba o al contrario tematiche che non sono abbastanza rappresentate?
Nel campo della danza il corpo è centrale, è messo in mostra, ogni epoca e cultura ha il suo «bel corpo», più o meno muscoloso e longilineo, la sua «morfologia perfetta». Sebbene i criteri cambino, il corpo rappresentato su scena deve essere bello e in salute. Dei corpi su scena parlano non solo gli artisti, ma anche il pubblico che critica e compara gli interpreti su scena stilandone una spietata lista di preferenze.
Si tratta di stereotipi che cerco di decostruire attraverso il mio proprio corpo. In Deep Cuts, per esempio, il mio corpo, per così dire diverso, si muove con movimenti propri alla danza classica. Facendo ciò, creo una danza politica che trovo magnifica malgrado le mie insicurezze.
Anche se non sono il più grande ballerino classico al mondo, propongo al pubblico una danza che è mia, e lo faccio con il mio corpo. Abbiamo il diritto di mostrare corpi «imperfetti», così come abbiamo il diritto di mostrare la violenza che ci abita. In Deep Cuts volevo far coabitare la violenza e l’ecologia in un solo e unico spettacolo.