Il bar Basso

by Claudia

Il rosso lava dell’insegna, con l’odore autunnale dei platani all’imbrunire camminando lungo viale Abruzzi, si scorge già in lontananza. Nato nel 1947 come mia mamma, tra reminescenze amniotiche e amnesie alcoliche, mi culla ancora il ricordo del suono polare del maxi cubetto di ghiaccio galleggiante nei bicchieroni del bar Basso. L’insegna al neon del nome, tratto dal signor Basso, prima anima di questa istituzione milanese al pari della Scala, da vicino rivela il bianco corsivo incorniciato dal rosso neon su sfondo rosso lava. Ai fianchi, due dei dodici mascheroni-leoni ruggenti di questo palazzo all’angolo con via Plinio e via Ernesto Noë. Senza farci distrarre troppo dall’odonomastica, il punto d’incontro tra il grande naturalista morto per via di un vulcano e lo stenografo fautore dell’esperanto, è l’entrata del Basso. Famoso per l’invenzione del Negroni sbagliato, una sera del 1972 al bancone di zinco luccicante che è la prima cosa che afferro con lo sguardo, per mano di Mirko Stocchetto (1931-2016). Barman veneziano per anni all’Harry’s bar, è al bar dell’hotel Posta di Cortina che fa furore con il suo socio Renato Hausammann con cui prende in mano il bar Basso il tredici ottobre del 1967. Un ricordo di Cortina, forse, la saletta separata sulla destra del bancone appena entrati, in vago stile rustico-montano dove riconosco un vecchio giornalista carogna con il cappotto e donna dark. Il velluto verde inglese delle sedie in legno, dall’altra parte, è senza eguali. Mi siedo allo stesso tavolino di due giorni fa quando mi sono reso conto che mi ricordavo tutta un’altra prospettiva del bancone. Però l’ultima volta che c’ero stato erano secoli e con la mia amica Anna ci siamo fatti non so quanti Sbagliati.

Lo Sbagliato nasce lì al bancone una sera affollata quando Stocchetto prende in mano per sbaglio (o per gioco) una bottiglia di prosecco al posto del gin e lo mescola assieme al bitter Campari e vermouth rosso della ricetta classica, servendo con ghiaccio e una fetta di arancia. È il successo di un errore, io però ho sempre preferito il Negroni vero. Inventato negli anni venti a Firenze dal conte Camillo Negroni come variante dell’Americano: al posto del seltz, il gin. Chiamarlo Sbagliato però, pregio massimo. Accarezzo con lo sguardo il lungo bancone di zinco e legno chiaro, illuminato dai due lampadari di cristallo appesi. Il rosa del soffitto lo si ritrova, a intermittenza, nei riquadri scanditi dal legno zigrinato della sponda del bancone dove dietro, in prima linea, ci sono due barman con la cravatta. Senza tempo, immutato e immutabile, senza però museificarsi troppo, questo posto dalla fauna eterogenea, mescola la carta da parati vittoriana color pistacchio agli abat-jour anni settanta fatti con bottiglie di champagne Diamant.

«Il Rob Roy è simile al Manhattan» dice il barman più giovane a un cameriere anziano che passeggia su e giù sul marmo roseo, solo che, aggiunge, «al posto del bourbon ci metti lo scotch». Seduta tra i due grandi specchi, una biondina con scialle color zucca, prende appunti e sorseggia uno Sbagliato nel bicchiere normale, a calice. Esito un attimo a osare chiedere un Shirley Temple poi ordino un cocktail analcolico a sorpresa, basta che sia servito nel bicchierone. Il mio cameriere, originario di Sant’Agata di Esaro, qui da due lustri, cravattino, gli occhi bulbosi gradevolmente allampanati, gilè, l’aria blasé ma al contempo di un estremo garbo mi propone, senza una parola di troppo né una di meno, il Primavera. Un mix di succo di pompelmo, ananas, arancio, sciroppo di granatina. Niente di epocale ma che gioia il bicchierone folle alto quaranta centimetri, idea – nonostante Mirko Stocchetto ne abbia rivendicato la paternità in un’intervista, ribadita dal figlio Maurizio erede del bar – del signor Basso. Poco importa, Stocchetto, ispirato dal Bellini (1948) lagunare di Cipriani, è considerato l’inventore del Rossini (prosecco, succo di fragole), dedicato così, giocando al contempo sul colore del cognome, a un altro compositore. Nell’angolo colgo il riverberare di due bicchieroni giganti. Il cubetto-iceberg nei loro «negri» – diminutivo con cui li chiamava l’Anna – contribuisce a donare, una fine pomeriggio di novembre al calar della nebbia, riflessi di un bagliore sommerso che meraviglia come quelli del rosso Tiziano.

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