Una Palma d’Oro inaspettata per un film sorprendente e inatteso. Si potrebbe riassumere in questo modo Anora di Sean Baker che, in maggio, si è portata a casa il premio più prestigioso alla 77esima edizione del festival di Cannes, e visibile, in questi giorni, anche nelle nostre sale.
Potrebbe pure puntare anche a qualche Oscar in marzo, perché è un’opera multiforme, frastagliata e stratificata. Dove il cambio di registro è parte integrante della narrazione e passa dalla commedia al dramma sino a quello romantico, in modo del tutto naturale.
Il regista affronta, in modo molto personale, la grande ossessione dei narratori statunitensi: il mito del sogno americano. E cioè la speranza che attraverso il lavoro e la determinazione sia possibile raggiungere un migliore tenore di vita e la prosperità economica. Ecco, noi seguiamo le vicende di una spogliarellista, di origine russa, esperta in lap dance che intrattiene i clienti con i suoi servizi a pagamento. Abita in una casa nella periferia di New York, vicino a una rumorosa linea della metro e sogna una vita migliore. Una Cenerentola dei nostri tempi, o forse più precisamente una Pretty Woman del 2024.
Un giorno nel locale dove lavora arriva Ivan, un ragazzo russo che si entusiasma di Anora (ma lei preferisce farsi chiamare Ani) e dei suoi molti talenti fisici. Decide perciò di invitarla a casa sua, una megavilla, dove scopre che il ragazzo è figlio unico di un oligarca russo. Tra i due nasce una bella intesa, tanto che lui decide di portarla a Las Vegas e di sposarsela. Con questa ennesima malefatta di Ivan, però, non sono per nulla d’accordo i genitori di lui, e inviano tre improbabili «uomini di fiducia» per recuperare il figlio e riportarlo sulla retta via.
Se nella prima parte la pellicola procede in modo fluido e classico, come in una qualsiasi Una notte da leoni, nella seconda arrivano le sorprese. Il ritmo si fa ancora più frenetico e inizia una serie di gag in cui il corpo viene usato come in una slapstick comedy (in voga soprattutto nel cinema muto), dove le azioni sono esagerate fino al limite del surreale. Gag basate soprattutto sulla grande caratterizzazione dei personaggi e l’adesione recitativa dei protagonisti.
In questo senso Ani (Mikey Madison) è davvero adeguata al ruolo. È il perno del film, e i vari registri, che mutano nel corso delle 2 ore e 10, si adeguano in base a quello che le capita. All’inizio la vediamo disincantata e furba, intenta a racimolare più mance possibili, poi, cambia atteggiamento e s’innamora di quello che lei vede come un ragazzo ricco, ma anche ingenuo e buono. Per poi cambiare ancora e diventare aggressiva e protettiva. Fino all’ultima, commovente e intensa svolta che non riveliamo. Un’interpretazione a 360 gradi che risalta la bravura, l’eclettismo e la grande forza di Madison-Anora.
Torniamo al sogno americano perché il film parla di un tema profondo e che appartiene al DNA, oggi più che mai, degli States. Questa è una storia che ricorda quella di personaggi partiti dal nulla e che vogliono emergere dalla massa, un po’ come i protagonisti di Rocky e La febbre del sabato sera. In apparenza segue lo stesso percorso, tuttavia Baker, in modo molto intelligente, mette in discussione il credo nell’American Dream. Lui racconta una generazione che lavora in un parco di divertimenti di quarta categoria, che sogna Disneyworld (l’ascesa sociale) ma che, così facendo, perde di vista quello che è; nel proprio profondo, nell’intimo. In sostanza, vede il sogno come un’illusione nella quale perdersi. Ed è proprio questo l’aspetto più interessante di Anora. La critica al sistema americano viene fatta utilizzando gli strumenti usati per raggiungerlo.
È un film generazionale perché Sean Baker ci dice: una soluzione per raggiungere una nuova autenticità (senza basarsi su sogni fasulli e irraggiungibili) i giovani l’hanno e il suo nome è Anora. Anzi, come direbbe lei, Ani.