L’ambientalismo non tira

Non hanno perso tempo i collaboratori di Donald Trump. Un paio di mesi prima del giuramento e dell’insediamento alla Casa Bianca del presidente eletto, hanno fatto sapere che uno dei provvedimenti urgenti destinati a caratterizzare l’inizio del suo secondo mandato sarà l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi. Nella capitale francese le parti della Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico s’impegnarono nel 2015 a contenere le emissioni di anidride carbonica e degli altri gas a effetto serra in modo da ridurre il surriscaldamento della Terra almeno fino alla soglia del due per cento, possibilmente dell’uno e mezzo, al di sopra dei valori che precedettero la rivoluzione industriale. Dalle parti di Washington questo impegno ebbe uno strano destino. Una ripetuta giravolta che riflette perfettamente i giri di valzer elettorali tipici del grande Stato federale. L’Accordo di Parigi fu ratificato dal Congresso degli Stati Uniti durante la presidenza di Barack Obama, e annullato dopo che Trump nel 2016 ne prese il posto. Poi fu reintrodotto da Joe Biden che successe a Trump nel 2020, e ora è in procinto di essere nuovamente annullato con il ritorno trionfale alla presidenza del candidato repubblicano. Non è che un antipasto, del resto, perché con ogni probabilità presto arriveranno i piatti forti, come la riapertura delle miniere di carbone o il rilancio del grande oleodotto che attraversando gli States collegherà il Canada al Messico. Esiste poi la realistica prospettiva che altri Stati, incoraggiati da questo precedente, siano pronti a emulare gli Stati Uniti.

Non è dunque nata sotto i migliori auspici la COP29, la ventinovesima conferenza delle parti che si sta celebrando a Baku, nell’Azerbaigian. L’assenza di numerosi fra i capi di Stato e di Governo che normalmente affollavano questi eventi non fa che sottolineare una realtà ben nota: sopraffatto da una quantità di esigenze, alle prese con una quantità di contenziosi comprese le due sanguinosissime guerre nel Medio Oriente e nell’Europa orientale, il mondo ha altro a cui pensare. Le urgenze ecologiche non hanno più la popolarità di un tempo, il cambiamento climatico è disprezzato come una delle tante fantasie woke, che non a caso il vecchio-nuovo presidente americano qualificò a suo tempo come nient’altro che una bufala. Eppure, la meteorologia impazzita riempie le cronache, mentre lo scioglimento dei ghiacci continua ad alimentare l’innalzamento del livello dei mari e ne modifica i parametri in termini di salinità e acidità, arrivando addirittura a deviare le loro correnti. Per non parlare dell’aria irrespirabile che soffoca sempre più le nostre città compromettendo, assieme alla salute del pianeta, quella di noi che l’abitiamo. Gli avversari dell’ecologismo militante accusano gli ambientalisti di servire oscuri interessi finanziari, dimenticando di operare all’unisono con chi, come la potentissima lobby petrolifera, cerca di contrastare i limiti che si vorrebbero porre, per centrare gli obbiettivi dell’Accordo di Parigi, all’uso dei combustibili fossili per la produzione di energia.

Nonostante tutto questo, a Baku si cerca di evitare un fiasco tale che condannerebbe a morte la diplomazia ambientale, lanciata dalle Nazioni Unite quando segnalarono al mondo l’insidia mortale che lo minacciava, e invitarono politici e scienziati al capezzale del pianeta malato. Inaugurando la conferenza, il ministro azero dell’ambiente, Mokhtar Babayev, ha detto che a causa del surriscaldamento globale il mondo è «sulla strada della rovina», è dunque necessario «tracciare un nuovo percorso». Chissà se Babayev intende farlo accettando un ridimensionamento dei consumi di combustibili fossili, lui che per una vita ha lavorato come dirigente della Socar, la compagnia petrolifera azera. E chissà se prima di parlare alla conferenza si è consultato con il suo presidente, Ilham Aliyev, che sulla stessa tribuna ha definito il petrolio «un dono di Dio». L’Azerbaigian si colloca ai vertici internazionali in fatto di esportazioni petrolifere, così come gli Emirati Arabi Uniti, che ospitarono a Dubai la COP dell’anno scorso. Proprio a Dubai, d’altra parte, fu riconosciuta ufficialmente la necessità di abbandonare i combustibili fossili. In un ambiente apparentemente paradossale come quello della diplomazia ambientale, con quel suo procedere a piccoli passi non sempre coerenti, si registrò un anno fa una convergenza di fatto fra gli Stati Uniti e la Cina per convincere un altro gigante petrolifero, l’Arabia Saudita, ad accettare l’abbandono graduale dei combustibili fossili. Ci si chiede se si tratta di una rinuncia puramente formale, e se i sauditi hanno davvero abbandonato la tradizionale riluttanza a sacrificare il petrolio sull’altare dell’ecologia.

Si chiede a questa COP29 di organizzare un’equa distribuzione dei fondi necessari per finanziare, a spese dei Paesi ricchi, la transizione energetica dei Paesi poveri. A Parigi si mobilitarono cento miliardi di dollari ma non bastano, e a Baku bisognerà alzare di molto questa cifra. In questo contesto ci si chiede quale sarà il ruolo della Cina, che incarna contemporaneamente la posizione di prima potenza commerciale del mondo e la condizione ormai da tempo superata di Paese tuttora impegnato nello sviluppo. Comunque sia, si tratta di somme colossali, che tutti vorrebbero incassare ma pochissimi sono disposti a versare, oberati come sono da problemi di bilancio legati fra l’altro alle spese militari che le guerre in corso hanno fatto schizzare verso l’alto. A meno di confidare nella esasperante lentezza dei progressi ottenuti dalla diplomazia ambientale, che scattò nel 1992 con la conferenza di Rio de Janeiro per dare vita alle ventinove conferenze fin qui celebrate, appare dunque piuttosto difficile prevedere che dalla riunione di Baku possa uscire qualcosa di risolutivo. Avremo forse uno di quei documenti finali pieni di promesse e di buone intenzioni che sono da sempre la toppa diplomatica sugli insuccessi dei politici. Intanto gli abitanti di Kiribati, il piccolo Stato oceanico assediato dal mare che se non cambia qualcosa lo farà scomparire sott’acqua, scrutano angosciati l’avanzare delle onde, lento ma inesorabile, e sempre più vicino alle loro case.

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