Tra il 1890 e il 1950 migliaia di giovani ragazze provenienti dal Ticino, dal Grigioni italiano e dal Nord Italia sono emigrate da sole o in piccoli gruppi verso i cantoni più industrializzati della Svizzera centrale e orientale per lavorare nelle fabbriche tessili. Le ragazze perlopiù minorenni erano alloggiate nei convitti industriali, costruiti dagli imprenditori stessi in luoghi adiacenti alle fabbriche e gestiti da congregazioni religiose cattoliche. La storia di questo singolare fenomeno migratorio femminile è stata a lungo dimenticata. A farla riemergere è ora il bel libro Ragazze di convitto (coedizione Armando Dadò e Archivi Donne Ticino) della storica Yvonne Pesenti Salazar. L’abbiamo intervistata.
Yvonne Pesenti Salazar, come è nato il suo interesse per la storia dei convitti industriali in Svizzera?
È un tema che ho incrociato anni fa mentre facevo ricerca per il mio dottorato: ho trovato una cartolina di una ragazza ticinese, che nel 1903 scrive a casa di nascosto, chiedendo ai genitori di venirla a prendere perché non resiste più nel convitto dove si trova. Questa cartolina che i genitori portarono a Herman Greulich, sindacalista ritenuto il «papà» della socialdemocrazia svizzera, era stata alla base di un’inchiesta effettuata dal Dipartimento Federale dell’Industria delle Fabbriche che coinvolse il convitto di Murg. In seguito ho continuato a cercare altro materiale, i primi risultati di queste ricerche sono poi confluiti nel film Ragazze di convitto girato nel 1988 da Werner Weick. Solo dopo l’uscita del film, però, molte donne mi hanno contattata e mi hanno raccontato la loro esperienza. Sono riuscita così a raccogliere tante testimonianze e moltissimi materiali che conservavano a casa e che mi sono serviti per raccontare l’universo dei convitti nella terza parte del libro. I convitti erano un universo a sé stante: si tratta di una vicenda complessa, che parla di emigrazione, di lavoro femminile e di industria. Ma è anche una storia paradigmatica di socializzazione femminile basata su principi che esasperano la già rigida educazione che veniva impartita all’epoca alle ragazze.
A proposito di modelli educativi esasperati, lei parla addirittura di internamento, perché regolamenti e disciplina nei convitti erano ferrei. Eppure molte delle testimonianze raccolte non sembrano raccontare episodi così cupi, alcune testimoni addirittura dicono che per loro gli anni del convitto sono stati un periodo anche bello…
Sì, in effetti internamento è un termine forte. Lo spiego in una nota proprio all’inizio del testo. Internare vuol dire isolare una persona, segregarla dal suo ambiente, tenerla sotto controllo, limitarne la libertà. Questi elementi nella vita dei convitti sono tutti presenti. Non è, però, un internamento coatto, le ragazze cioè vanno in convitto di propria volontà, alcune addirittura contro il parere dei propri genitori, perché sognano l’indipendenza. Il convitto è comunque a tutti gli effetti un’istituzione totale, caratterizzata da disciplina conventuale, obbedienza assoluta, silenzio, isolamento, esclusione dalla vita sociale del luogo, controllo pervasivo, limitazione della libertà, censura della corrispondenza, giornate scandite secondo ritmi precisi. Se non è internamento, gli assomiglia davvero molto.
Che le donne poi valutino questo periodo in altro modo deriva da diversi fattori. Intanto la memoria quando si riferisce agli anni giovanili della propria traiettoria biografica, mette in atto dei meccanismi di selezione: la gioventù viene sempre valutata come un periodo felice, spensierato. Poi di fatto molte donne (e le loro famiglie) ne hanno tratto dei vantaggi, una signora che ho intervistato quasi ottantenne mi ha detto: «Se io fossi rimasta qui avrei visto solo la porta della stalla». Nessuna però nega la disciplina, la durezza, il controllo. Il che non deve stupire considerando che erano anni in cui la socializzazione di una ragazzina di quattordici-sedici anni era esattamente improntata a quel modello. Era un mondo patriarcale, estremamente opprimente per le donne, per cui il convitto non rappresenta un cambio di paradigma così eclatante.
Chi erano le ragazze? Come venivano reclutate?
I convitti in Svizzera interna nascono come istituti di correzione, come li chiameremmo adesso, sono istituti di rieducazione industriali. Gli industriali, che hanno bisogno di manodopera a basso costo e stanziale, si profilano dagli anni 50 dell’Ottocento come benefattori che contribuiscono a lenire il degrado sociale dando un tetto a delle ragazze che sarebbero votate alla miseria, all’abbandono. Poi a partire dagli anni 90 dell’Ottocento cominciano a diventare degli istituti per le migranti, diventano degli alloggi per le ragazze italiane e ticinesi che affluiscono a frotte quando la necessità di manodopera dell’industria tessile svizzera cresce. Gli industriali mettono in atto dei sistemi molto efficaci di reclutamento, inviano, ad esempio, agenti propri che percorrono le vallate del Nord Italia. Un altro vettore di reclutamento è il clero: in Ticino sono perlopiù i parroci del villaggio che informano che le fabbriche della Svizzera tedesca cercano personale femminile.
Le giovani avevano idea delle condizioni che andavano a trovare e sapevano quanto guadagnavano?
Nessuna ragazza ricorda di aver mai visto un contratto, partivano senza sapere che tipo di impegno avevano preso i genitori o i tutori. Quelle che sono partite negli anni 20 e 30 sanno quanto denaro possono inviare a casa, perché dopo la prima Guerra mondiale gli ispettori di fabbrica ottengono che le ragazze abbiamo almeno periodicamente la visione del loro libretto, nel quale le suore iscrivono tutte le spese. Sanno dunque che possono mandare periodicamente delle buone rimesse ai genitori, ma non ricevono loro stesse il salario, che viene consegnato alle suore. Naturalmente queste ultime dicono che se le ragazze avessero in mano del denaro scapperebbero. Lo raccontano anche alcune intervistate: «Ormai dovevano tenere loro i soldi perché avevano paura che le più ribelli fuggissero dal convitto».
A un certo punto lei scrive nel suo libro che «il sodalizio tra industriali e congregazioni femminili si manterrà per decenni coniugando il paternalismo aziendale e l’assistenzialismo religioso in modo molto efficace», ma come è nato questo sodalizio e i vantaggi erano veramente per entrambe le parti?
Il sodalizio tra gli industriali e la Chiesa nasce per motivi pratici. Siamo in un’epoca (fino alla Seconda guerra mondiale) in cui l’identità e l’appartenenza religiosa hanno un significato profondo. Le ragazze partono da regioni cattoliche, cioè regioni poco industrializzate che offrono manodopera a buon mercato, e vanno a stabilirsi in un territorio a religione protestante. La paura che abbandonino la fede e le pratiche devozionali per i genitori sarebbe stato un fattore frenante. Gli industriali, quindi, si rivolgono alla Chiesa che mette a disposizione le suore cattoliche, di regola le suore di Menzingen. Il profitto degli industriali è molto chiaro: le ragazze sono al sicuro, la loro incolumità fisica e morale è salvaguardata, è garantita la disciplina e l’obbedienza, rimangono ben lontane dalle rivendicazioni sindacali. Infine i convitti garantiscono la stanzialità della manodopera. Per la Chiesa il discorso è più sottile. La Chiesa cattolica è in un periodo, la fine dell’Ottocento, in cui inizia a manifestarsi e ad affermarsi il movimento operaio socialista. È cioè posta di fronte al problema della cosiddetta scristianizzazione, o laicizzazione della società che va di pari passo con l’inurbamento, con il lavoro di fabbrica e con le migrazioni. Sin dall’inizio dei movimenti migratori la Chiesa si attiva con le missioni cattoliche e con una serie di organizzazioni assistenziali per non perdere il contatto, direi quasi il controllo, sulle masse dei migranti. Con la gestione dei convitti ha dunque un vantaggio immateriale, che però non è di certo meno importante del vantaggio materiale degli industriali.
Perché la storia dei convitti è stata a lungo quasi dimenticata? È stato difficile trovare materiale negli archivi?
Penso che quando si fa storia delle donne, soprattutto quella delle donne dei ceti subalterni si è sempre confrontati con il problema delle fonti. Queste donne non scrivono, se non raramente, e quindi non lasciano tracce. Contano poco all’interno della società e di riflesso contano poco anche nella memoria storica: di loro vi è poco o nulla negli archivi. Una parte del materiale per la mia ricerca è quello custodito nell’archivio delle suore di Menzingen, ma in realtà ho potuto scrivere questo libro solo perché le stesse protagoniste mi hanno fornito testimonianze, lettere, cartoline, fotografie.
Il motivo per cui la storia dei convitti per molto tempo non è stata raccontata penso risieda nel fatto che in Ticino quando si parla di emigrazione al femminile si è sempre messa in risalto la situazione delle donne che restavano al paese, mandando avanti la famiglia e l’azienda contadina mentre gli uomini erano via da casa. Quello che racconto è a tutti gli effetti un fenomeno molto particolare, un’emigrazione «alla rovescia» che non dischiude nuovi orizzonti né porta a un’emancipazione economica e sociale. Inoltre, per molto tempo è stata rimossa anche da chi l’ha vissuta in prima persona.
Di tutte le testimonianze che ha raccolto ce n’è una che si porta nel cuore o che l’ha toccata particolarmente?
Questa domanda mi è già stata posta e per me è molto difficile rispondere. Moltissime testimoni che ho intervistato mi hanno colpita e alcuni dei loro modi di dire sono entrati nella comunicazione quotidiana della mia famiglia. Non è una vicenda in particolare ad avermi toccata piuttosto l’atteggiamento delle donne, che ho intervistato ormai anziane: tutte si erano rappacificate con la durezza della vita e con questa esperienza che le ha fatte soffrire. Nessuna serbava rancore, nessuna esprime amarezza. Per me sono state tutte, chi per un verso chi per un altro, un insegnamento e me le porto nel cuore. Ho sempre avuto l’impressione di avere un debito nei loro confronti, e questo sentimento è la ragione che mi ha spinta a scrivere questo libro.