Quando il corpo diventa protesta

«È pazza. È pazza, e deve essere rinchiusa!». Perché chi, se non una pazza, rimane in slip e reggiseno e comincia a camminare per strada aspettando l’arrivo della polizia? La «pazza» si chiama Ahoo Daryaei, è una studentessa universitaria, e la sua immagine in reggiseno viola e slip a righe campeggia sui social media e anche su un murales davanti all’ambasciata iraniana di Milano. Perché la giovane è diventata un simbolo, l’ennesimo, della resistenza di ragazze e donne iraniane contro l’imposizione dell’hijab (il velo integrale) e le vessazioni della cosiddetta polizia morale. Avvicinata da membri delle «squadre della gentilezza», brigate di donne paludate di nero definite dalla popolazione «i pipistrelli», che molestano ragazze e donne il cui abbigliamento non è conforme ai canoni della morale religiosa, Ahoo Daryaei si è rifiutata di coprirsi ulteriormente. E, davanti alla minaccia di chiamare la polizia morale, si è tolta i vestiti e ha cominciato a camminare per strada. Per protesta, per disprezzo. Per dare un segnale, l’ennesimo. Come ha dichiarato Masih Alinejad, attivista per i diritti umani iraniana, Daryaei «ha trasformato il suo corpo in una protesta, spogliandosi fino alla biancheria intima e marciando per il campus, sfidando un regime che controlla costantemente il corpo delle donne». Poi è stata presa, gettata in una macchina e portata via.

Ore dopo, quando le proteste via social media erano già diventate virali, il portavoce del Governo ha dichiarato che la ragazza non si trova in un centro di polizia, bensì in un istituto psichiatrico perché soffre di problemi mentali e «deve essere aiutata». Peccato che, definendo il suo trasferimento in un istituto psichiatrico sconosciuto come «un rapimento», il Centro per i diritti umani in Iran abbia dichiarato: «Le autorità iraniane usano sistematicamente il ricovero psichiatrico involontario come strumento per reprimere il dissenso, bollando i manifestanti come mentalmente instabili per minare la loro credibilità». Che Amnesty International abbia sostenuto di avere prove che dimostrano che i prigionieri vengono sottoposti a scosse elettriche, torture, percosse e sostanze chimiche quando vengono arrestati con il pretesto dell’instabilità mentale. E che sia recentissima la notizia dell’istituzione, in Iran, di «Hijab clinics», cliniche dell’hijab, dove le «pazze» che rifiutano di attenersi ai comandamenti degli ayatollah possono essere adeguatamente curate. Peccato anche che tanta stampa occidentale abbia in qualche modo sposato le tesi del Governo iraniano («è pazza») e che poche femministe siano scese in campo. Perché nella terra dei diritti e della libertà personale siamo tutti attenti, attentissimi, più che a difendere la vita delle donne e i loro diritti, a non dare adito a nessun commento che possa essere bollato come islamofobico. Fobia, in greco, significa paura: paura irrazionale. E della «sharia» – la legge islamica – le iraniane, così come le afghane dall’altra parte del confine, hanno sì paura, ma la loro paura è razionale e ben motivata. Una paura che in Afghanistan non si può nemmeno più esprimere ad alta voce, perché l’ultimo editto dei criminali al Governo, i talebani, vieta alle donne perfino di pregare in modo da poter essere udite da altre donne. Dal loro ritorno al potere, i talebani hanno vietato agli esseri di sesso femminile di andare a scuola, di uscire di casa non accompagnate da un parente maschio, di frequentare giardini pubblici, palestre o parrucchieri. Hanno loro vietato di viaggiare da sole, di parlare a qualunque individuo di sesso maschile, inclusi i medici, con cui non abbiano legami di parentela.

Musica e canto sono proibiti a chiunque, ma negli ultimi mesi alle donne è stato vietato anche di parlare in pubblico ad alta voce perché la voce femminile è «una cosa intima» e può essere causa del turbamento maschile. Come detto, il divieto di pregare ad alta voce anche tra donne è l’ultima «perla di saggezza» degli ex «studenti di teologia» – che lapidano, uccidono e torturano – e hanno un sacrosanto terrore delle donne. Dei loro corpi, dei loro capelli, della loro voce. Della loro libertà di scelta. E non si tratta ormai solo di casi isolati. Le scuole femminili vengono attaccate anche in alcune regioni del Pakistan, dove lo spazio per il laicismo e le minoranze religiose è diventato inesistente e dove viene «caldamente consigliato» alle donne di coprire la testa in pubblico. E anche la Libia, passata da una dittatura laica a un Governo di stampo religioso sostenuto per di più dalle Nazioni Unite, di recente ha annunciato per bocca del ministro degli Interni Imed Trabelsi la creazione di una «polizia morale» e l’introduzione di regole di stampo talebano/iraniano: velo obbligatorio sopra i nove anni, divieto per le donne di viaggiare da sole o di intrattenersi con uomini con cui non abbiano legami familiari. «La libertà personale non esiste qui in Libia», ha dichiarato Trabelsi. Aggiungendo che chi la cerca «dovrebbe andare in Europa». O, in alternativa, all’altro mondo.

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