Non c’è più un posto sicuro in tutto il Libano si dice da settimane, e la conferma arriva anche dal bollettino di guerra quotidiano. Da un’operazione intesa a distruggere i depositi di armi di Hezbollah al confine meridionale, l’offensiva israeliana si è trasformata in una guerra più ampia che non risparmia nulla. Colpita a nord anche la millenaria città fenicia di Byblos, dopo incursioni dell’aviazione nella valle della Beqaa e sulla delicata zona di Baalbek, dove ci sono preziose antichità romane, mentre a sud un altro centro di interesse culturale, Tiro, è diventata bersaglio di numerosi e pesanti bombardamenti. L’Unesco, che tutela queste bellezze, ha deciso di riunirsi con urgenza per chiedere una protezione rafforzata del patrimonio artistico, ma intanto la comunità internazionale tace, e sono cadute anzi nel vuoto anche le accuse che il premier libanese Najib Mikati, isolato e solo, ha lanciato per la preoccupante inazione del mondo. È proprio a Tiro che si può vedere la distruzione che sfiora il parco archeologico affacciato sul mare. Dai finestrini dell’auto si vedono negozi e ristoranti chiusi, come pure gli hotel di questa località turistica con le sue belle spiagge. Poco prima dell’ingresso in città, ci accoglie un grosso cratere sul ciglio della strada mentre tutto intorno ogni cosa è diventata grigia, coperta dalla polvere sollevata dalle esplosioni. E il centro di Tiro, dopo i ripetuti colpi, è ormai parzialmente distrutto. Continuare fino alla frontiera con Israele, che dista solo 20 km, sarebbe una follia senza unirsi ai convogli militari e della missione UNIFIL, United Nations Interim Force in Lebanon. Ma intanto, chi tiene il conto delle perdite del Libano, ha calcolato che in quasi due mesi i danni sono già più del doppio rispetto a quelli della guerra del 2006.
«Il tuo Libano è vuoto e fugace, mentre il mio Libano durerà per sempre», sono le parole che campeggiano dall’impalcatura di un palazzo in ristrutturazione a Beirut. Si tratta dei versi di una bellissima poesia del libanese Khalil Gibran, che parlava del suo Paese lontano con profonda nostalgia anticipando, senza saperlo, quello che sarebbe stato il suo tragico destino. Lo stesso destino che sembra sul punto di ripetersi, come temono ormai in tantissimi qui, senza più domandarsi se, ma quando. Lo spettro della guerra civile infatti, da ombra si sta facendo corpo mentre gli effetti del conflitto hanno già modificato la geografia del sud del Libano, a ridosso col confine israeliano. L’Idf, l’esercito di Benjamin Netanyahu, ha distrutto decine di villaggi dove vivevano piccole comunità sciite ma anche cristiane. Anche per questo i libanesi sono stanchi e sfiduciati, ma soprattutto divisi per gli scenari senza precedenti che si stanno configurando in un contesto fragilissimo.
La paura serpeggia anche tra i libanesi più anziani mentre fumano nei caffè all’aperto sulla rue Hamra, via centrale nel quartiere musulmano della capitale, celebre in passato per la sua vita mondana, le librerie e i negozi di moda italiana e francese. Incuranti del rumore di un traffico impossibile, seduti ai tavolini dei bar leggono i giornali che ogni giorno raccontano situazioni impensabili fino a due mesi fa. Ecco allora che la presenza dei soldati israeliani penetrati nel sud ricorda ciò che accadde nel 1982, quando l’operazione «Pace in Galilea» lanciata da Israele, ufficialmente per allontanare il nemico facendolo arretrare di 40 km dalla frontiera, aveva portato i suoi soldati fino a Beirut. Chi ha la memoria di allora ritiene che i segnali ci siano tutti. La «linea rossa» stabilita dal fiume Litani e la sua importante fonte d’acqua rientrerebbe inoltre nel progetto del Grande Israele, ovvero il piano di espansione che travalica gli attuali confini israeliani, mentre gli attacchi contro le milizie di Hezbollah – inizialmente per proteggere i villaggi del nord di Israele dal continuo lancio di razzi – si sono presto estesi a target civili e non solo militari. Così, da settimane, vengono colpiti banche, depositi, logistica, ma anche uffici e stazioni televisive collegate direttamente o indirettamente al Partito di Dio. I morti sono già oltre tremila, e almeno 15 mila i feriti. Nel mese di ottobre invece, aveva provocato orrore la morte di tre giornalisti delle emittenti televisive filo-sciite Al Manar e Al Mayadeen, uccisi di notte mentre dormivano in un hotel ad Hasbaya, nel sudest del Libano, colpito con un missile nonostante lì fossero alloggiati anche altri reporter, le cui auto parcheggiate in cortile recavano ben visibile la scritta «Press».
Il vescovo di Beirut: «Abbiamo fallito tutti»
«Abbiamo fallito tutti: le istituzioni, la società e anche la Chiesa», dice il vescovo di Beirut, César Essayan. «La situazione è incerta. Primo: non sappiamo come andrà a finire la guerra con Israele, perché non sappiamo cosa vuole Israele e quali siano le sue visioni nel lungo termine. Secondo: non è chiaro quanto Israele potrà fermare Hezbollah, infine non abbiamo mai visto un numero così importante di sfollati libanesi. E poi c’è paura di non saper gestire la situazione tra di noi. Cioè, se tra queste persone c’è chi sostiene Hezbollah, o Israele, mette a rischio la vita di tutto un villaggio. Quindi, se da un lato non possiamo non accogliere, dall’altro non sappiamo chi stiamo accogliendo».
Lo Stato è presente?
«No, e se il Parlamento non si riunisce per eleggere un presidente della Repubblica, non vediamo un futuro. Se ci sarà un cessate-il-fuoco, quanti potranno tornare a casa? C’è stata distruzione, c’è chi ha perso casa e lavoro, tanti si occupavano di agricoltura e hanno terreni devastati… Ci vorranno anni, perché Israele ha usato bombe al fosforo. Senza contare il problema psicologico per gli sfollati e i bambini».
Una nuova guerra civile è possibile?
«Dipende dalla saggezza di alcune persone. Da libanese che ha dei sentimenti non sono obiettivo e penso che ci siano delle persone che stanno cercando questa guerra civile perché stanno impedendo di organizzare la vita interna degli sfollati, di trovargli un posto. Si cerca di spingerli altrove, di creare tensione tra la nostra gente, perché non è possibile che uno Stato non prenda in mano l’organizzazione dei bisogni di base con tutti gli aiuti che arrivano. Speriamo che non accadano incidenti isolati che possano portare a un conflitto. Per esempio c’è l’arroganza di Hezbollah, perché sanno che qui non sono i benvenuti, ma hanno contagiato gli altri sciiti. E anche per chi ha aperto le porte è difficile, perché non ci siamo mai riconciliati tra di noi prima».
Qual è la posizione della Chiesa?
«La diplomazia vaticana non si è fermata, ma non solo per i cristiani. Bisogna salvare tutto il Libano. Noi cristiani abbiamo aperto le nostre strutture, perché le strutture musulmane non hanno aperto agli sfollati?»
Qual è la risposta?
«Se apro una scuola per uno sfollato, lo sfollato deve rispettare chi lo accoglie, ma questo non succede. Un Paese non può permettere che lo spostamento di persone non sia controllato, e che nelle scuole vengano accolte persone con le armi. Per questo parlo di rischio. Inoltre siamo ostaggio di forze politiche che cercano di accontentare qualche potenza. Il Libano è già stato distrutto una prima volta ed è stato ricostruito, poi, nel 2006, l’aviazione israeliana lo ha di nuovo distrutto; oggi è successo ancora. Adesso vedremo gli accordi che faranno i potenti, ma se per ora la guerra civile non è scoppiata è perché non si capisce a chi possa giovare. Molto è colpa di Hezbollah e dell’Iran, ma parecchie colpe le hanno Israele e gli Usa e anche la Francia, che non ha saputo fare diplomazia. Abbiamo colpe anche come libanesi, perché non abbiamo avuto leader che siano uomini di Stato, e anche come Chiesa».
Israele poteva fare diversamente?
«Certo. Oggi conosciamo la forza del Mossad e di Israele. Se ha saputo prendere Nasrallah vuol dire che sapeva tutto quello che stava facendo Hezbollah. Poteva agire diplomaticamente, presentare prove all’Onu con carte e filmati per mostrare come Hezbollah o lo Stato libanese non rispettassero la risoluzione 1701 e chiedere al mondo occidentale o agli Usa di applicare sanzioni. Anche Hamas non avrebbe potuto diventare così forte senza il permesso, diretto o indiretto, di Israele. A Israele interessa che Hezbollah e Hamas siano forti perché così può rivendicare l’aiuto degli altri in armamenti dicendo di essere in pericolo. E Hezbollah ha interesse a dire che Israele è una minaccia perché l’Iran vuole mettere piede in Libano. Ma quello che fa paura è che i protagonisti del passato sono gli stessi di oggi. Il presidente del Parlamento è lo stesso da 30 anni. Noi non abbiamo imparato dalla storia, non abbiamo chiesto perdono a nessuno. Siamo diventati sempre più arroganti senza chiederci scusa tra di noi per quello che ci siamo fatti. Per questo la storia potrebbe ripetersi di nuovo».