Cosa farà Donald Trump?

Nel millesimo giorno di guerra l’Ucraina era ripiombata nel buio e il mese di novembre minaccia di segnare l’ennesimo record: di civili uccisi dalle bombe russe, di missili e droni lanciati sulle città ucraine, di invasori caduti nelle trincee del Donbass dove l’esercito di Vladimir Putin continua ad avanzare (mentre la Casa Bianca decide di inviare anche le famigerate mine anti-uomo a Kiev). Le elezioni del nuovo presidente americano non solo non hanno aperto uno spiraglio di pace, che Donald Trump aveva promesso in campagna elettorale di portare «in 24 ore», ma hanno segnato una escalation. Sul fronte continuano ad arrivare truppe nordcoreane – «Bloomberg» parla di 100 mila uomini di Pyongyang che verrebbero inviati a combattere a fianco dei russi nei prossimi mesi – e il Cremlino ha risposto alle aspettative di un’imminente tregua sferrando massicci attacchi contro le infrastrutture civili delle città ucraine. Mentre, proprio alla vigilia dell’arrivo dell’inverno, Kiev, Odessa e altri grandi centri precipitavano nel buio e nel gelo, il Ministero della difesa russo non faceva segreto nei suoi comunicati di aver colpito centrali elettriche e di riscaldamento, per piegare la popolazione che entra nel quarto inverno sotto le bombe. Una risposta molto chiara sia alle promesse di pace del team del presidente eletto, sia ai tentativi di riavviare una diplomazia con il Cremlino da parte di Olaf Scholz, che ha infranto il tabù di telefonare al dittatore russo soltanto per dover ammettere che «rimane delle sue idee». Il portavoce della presidenza russa Dmitry Peskov ha anzi ribadito che le condizioni alle quali la Russia è disposta a parlare di tregua vanno ben oltre il «congelamento del conflitto» lungo la linea del fronte attuale: Putin vorrebbe cinque regioni ucraine, incluse territori che le truppe russe non hanno occupato e non sono in procinto di occupare. Una posizione che ha fatto dire a Emmanuel Macron che il presidente russo «non vuole la fine della guerra», e in effetti da Putin non è arrivato alcun segnale di distensione, a parte qualche complimento a Trump come «uomo coraggioso», e l’invito a telefonargli, «sono pronto a parlare».

Invito che il presidente eletto degli Usa per ora non ha colto, non ufficialmente almeno, anche se il «Washington Post» rivela che una telefonata molto poco ufficiale ci sarebbe stata. In realtà Trump non sembra per ora avere molto da dire. È vero che dalla sua cerchia sono uscite molte indiscrezioni e proposte su come fermare le ostilità in Ucraina, che tutte in una misura minore o maggiore vengono incontro a Mosca sacrificando gli interessi e l’indipendenza di Kiev. Ma è vero anche che queste intenzioni sono filtrate finora in interviste ai media, dichiarazioni di consiglieri di Trump, tweet di Elon Musk e meme del figlio del presidente. Parole spesso anche molto sprezzanti nei confronti dell’Ucraina e del suo leader Volodymyr Zelensky, che però sostiene – dopo essere stato tra i primi a complimentarsi per la vittoria del candidato repubblicano – di aver avviato con lui un dialogo promettente. Anche molti leader di Paesi europei hanno fatto capire che nelle prime conversazioni con loro il prossimo presidente Usa non ha espresso intenzioni così radicali contro l’Ucraina come quelle della campagna elettorale. Non ha espresso però nemmeno proposte concrete. Anche perché porre fine – o almeno «congelare» – l’invasione russa non è certamente facile. Trump dovrebbe convincere Putin a fermarsi, se non a retrocedere: con la minaccia di nuove forniture di armi a Kiev o, secondo alcune teorie, facendo collassare il prezzo del petrolio, base economica del regime russo. Per farlo però dovrebbe convincere gli Stati petroliferi del Golfo ad aumentare la produzione insieme agli Usa, obiettivo tutt’altro che scontato e comunque non di effetto immediato. Per costringere Zelensky a cedere (almeno di fatto) i territori occupati dalla Russia, Trump dovrebbe proporre all’Ucraina in cambio garanzie di sicurezza da un’ulteriore aggressione: potrebbe essere un’adesione alla Nato, oppure armamenti a volontà per creare uno «scudo» contro i bombardamenti russi, ma questo tipo di assistenza non soddisferebbe Putin. Inoltre sembra che la Casa Bianca voglia usare come forza di interposizione nel Donbass truppe europee: è vero che in questo momento è l’Ue nel suo insieme a esprimere con maggiore convinzione l’impegno a sostenere l’Ucraina militarmente, politicamente e economicamente, ma è improbabile che molti Paesi vorranno schierare i loro soldati in una guerra che rischia di rimanere calda.

È evidente che la fretta di Putin di avanzare nel Donbass, pagando pochi chilometri di offensiva con migliaia di vite dei suoi soldati, deriva dal desiderio di occupare più territori possibile prima di venire costretto alle trattative. È altrettanto evidente che considera qualunque proposta di pace un segno di debolezza dell’avversario, che quindi va affrontata aumentando la pressione e non lanciando segnali di distensione. Non si può escludere quindi che la tanto attesa autorizzazione di Joe Biden all’esercito ucraino di colpire il territorio della Russia con missili a lunga gittata sia stata in realtà non uno sgarbo a Trump, ma al contrario un accordo tra l’amministrazione uscente e quella futura, per rendere il nuovo presidente il «poliziotto buono» in un eventuale negoziato con Putin. Ma il vero interrogativo rimane su cosa farà Trump dopo che il suo tentativo di mettere d’accordo tutti in 24 ore fallirà, e si ritroverà – come già successo nel 2016 – con un Cremlino per nulla desideroso di scendere a compromessi.

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