Delhi soffoca nello smog

by Claudia

La causa principale non sono i gas di scarico ma la combustione delle stoppie lasciate nei campi dopo la raccolta del riso

Si vede perfino dallo spazio, la nuvola che incombe su Delhi ormai da giorni. Quella nuvola grigia e tossica che causa tosse, mal di testa e problemi respiratori, che avvolge di nebbia per buona parte della giornata edifici e strade e persone. E ricopre di una polvere densa e giallastra le foglie degli alberi davanti a casa mia rendendo grigi in un paio d’ore gli abiti bianchi. Succede in questo periodo, in realtà, ormai da anni. Quest’anno, però, è peggio di sempre. L’indice della qualità dell’aria ha superato abbondantemente la soglia di pericolosità, ed è superiore di 20-30 volte (dipende dalle giornate) a quello che l’Organizzazione mondiale della sanità considera il livello di guardia. In pratica, viviamo in una camera a gas. Ogni inverno da che mi ricordo a Delhi siamo alle prese col problema dello smog, una miscela tossica di fumo, polvere e nebbia intrappolata dall’umidità, dall’assenza di vento e dalle basse temperature. Causata secondo Safar, un’agenzia di previsioni meteorologiche che fa capo al Ministero delle Scienze della Terra, per il quaranta per cento circa dalla combustione delle stoppie – una pratica che prevede che le stoppie lasciate dopo la raccolta del riso vengano bruciate per liberare i campi – nei vicini Stati del Punjab e dell’Haryana. Le immagini riportate dai satelliti della Nasa documentano i fuochi che bruciano allegramente nei campi e che i contadini adoperano per preparare velocemente la terra alla nuova semina: quando il Governo ha provato a vietare la pratica, hanno bloccato Delhi per un mese a bordo di trattori e SUV. Dicono di avere bisogno di aiuti finanziari e tecnici per trovare modi alternativi per eliminare i resti del raccolto, ma non specificano quali. Né perché i contadini di altri stati siano capaci di farne a meno. Il resto del problema va accollato alla voce ’sviluppo’, e ha cause che ci sono più familiari: le macchine e i macchinari a diesel e l’attività edilizia.

Più, per un paio di giorni, la quantità di fuochi d’artificio sparata in occasione della festa di Diwali. Il Governo ormai da giorni ha ordinato la cessazione di tutte le attività che prevedono l’uso di carbone e legna da ardere, nonché l’uso di generatori diesel per servizi non di emergenza. Ha vietato l’ingresso di camion a diesel in città a meno che non provvedano a servizi di prima necessità come il trasporto di generi alimentari e ha fermato i lavori di costruzione non indispensabili. Le scuole sono chiuse fino a nuovo ordine, e gli uffici sono stati invitati a far lavorare in smart working almeno il 50 per cento dei dipendenti. Siamo tutti caldamente invitati a rimanere in casa il più possibile e ad adoperare i mezzi pubblici se dobbiamo uscire. I produttori di purificatori dell’aria stanno facendo affari d’oro, ed è possibile ordinare il tuo bravo purificatore perfino sui siti che consegnano in genere frutta, verdura e altri generi alimentari. Vista la situazione e il mal di testa strisciante che affligge un po’ tutti da qualche giorno, io e le mie amiche abbiamo deciso di andare a passare qualche giorno nella fattoria dei genitori di una di noi, in un villaggio dell’Uttar Pradesh. Appena uscite dalla città, per la prima volta da giorni, abbiamo visto il sole. Perchè a una cinquantina di chilometri da Delhi cambia l’atmosfera, cambia il paesaggio e, soprattutto, esci dall’Occidente e dal futuro e sei di nuovo in India. Nell’India delle piccole città di provincia e dei villaggi, dove le macchine sono ancora poche e il traffico è essenzialmente composto da motociclette su cui viaggiano intere famiglie e da moto-rickshaw: praticamente una lambretta con i sedili e un tettuccio, che può contenere sei-otto passeggeri (dipende da quanto sono disposti a comprimersi) e che funziona da taxi. Ai bordi dell’autostrada, gente da sola o in gruppi che aspetta qualcosa o qualcuno al ciglio della carreggiata: taxi/autobus improvvisati (e illegali), forse, ma non ne sono sicura. Ciò di cui sono sicura invece, è la sensazione di essere tornata finalmente a casa, nell’India che amo. La felicità di passare un pomeriggio passando da una bancarella all’altra che vende il più delizioso cibo di strada immaginabile, di sedere su una panca per strada a bare il tè dentro un kullar, una tazzina di terracotta. La felicità di spendere qualche ora a comprare braccialetti di vetro, di svegliarsi la mattina, al villaggio, con il profumo dei frangipani e degli alberi di gelsomino corallo e di addormentarsi col profumo dei gelsomini ordinari. Non siamo più abituati alla campagna, nemmeno le mie amiche indiane. Alle vespe che di questa stagione sono in giro in sciami fino alle due di pomeriggio: poi scompaiono, e arrivano le formiche. Non siamo abituati ai frutteti, ai campi coltivati. Alle contadine che ricavano combustibile dallo sterco di vacca: formelle di sterco e paglia messe a seccare al sole, che servono ad accendere e ad alimentare il fuoco per cucinare dentro alla chula, una specie di fornello/forno fatto di creta e fango, e per scaldarsi. Al sole che di sera è una enorme palla rossa dentro un cielo d’argento. Ci è dispiaciuto, tornare. Vedere scomparire la gente al ciglio della carreggiata, i trattori pieni di fieno e stoppie, le motociclette e gli autorickshaw. E vedere riapparire, a cinquanta chilometri da Delhi, la spessa coltre di smog che rende la città, quando a sera si accendono le luci simile, più che a una città moderna, a un apocalittico scenario uscito da una scena di Blade Runner.

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