Il piccolo mondo sul lago di Puccini

Un secolo fa, il 29 novembre 1924, Giacomo Puccini cessò di vivere in una clinica di Bruxelles, dove era ricoverato per sottoporsi a una terapia volta a stroncare un tumore alla gola. Il cuore del Maestro non resse all’energica azione del radio. Aveva 66 anni.

Per prima cosa, dobbiamo ricordare che Puccini fu a lungo, e in più occasioni, ospite in Ticino. Vacallo e dintorni erano stati i luoghi di villeggiatura preferiti: dall’agosto al novembre del 1888, poi nell’estate dell’anno successivo, nuovamente da luglio a novembre del 1890, e infine nella stagione calda del ’92. (su www.vacallo.ch sono segnalati ancora tre concerti-omaggio a novembre e dicembre, organizzati nell’ambito dei festeggiamenti per l’anniversario, ndr).

Il grande compositore, in questo 2024, è stato, ed è, celebrato in un migliaio di allestimenti in tutto il mondo, per il posto che merita sulla scena artistica universale. È vero, portò con sé, nella sua bara, anche la Lirica, che non gli sopravvisse, ma riuscì a innovare in maniera rivoluzionaria il linguaggio tradizionale dell’Opera ottocentesca, e in qualche modo ci fece dono della sua duplice immortalità ponendo di fatto le basi della canzone melodica all’italiana.

Al turista giapponese che oggi visita la casa-museo di Puccini, a Torre del Lago di Viareggio, sospinto da una stanza all’altra, da una vetrina con cimelio autografo alla maschera funebre, viene proposta la solita immagine seriosa del Grande Genio Imperituro che il tempo ha trasfigurato in un falso monumento. Puccini sarebbe il primo a ridersela di questa sceneggiata, perché già da vivo non ne poteva più dei suoi parrucconi concittadini di Viareggio che, dopo averlo criticato per aver convissuto «nel peccato» con una donna sposata, lo inseguivano con le pergamene perché, con la sua arte, aveva reso celebre il lago di Massaciuccoli.

Al gigante marmoreo, preferiamo l’irriverente, ma vero, ritratto del toscanaccio che riesce a trasformare un villaggio di capanne (tale era Torre del Lago agli inizi del Novecento) in una succursale di Montmartre e di Pigalle. Macché Maestro e neanche sor Giacomo: per i suoi compagni di burle, Puccini era solo «Spacco», e il suo identikit pare somigli a quello del goliardico dottor Sassaroli di Amici miei. Nella capanna dell’oste «Gambe di Merlo», ribattezzata «Club della Bohème», il sublime autore di Tosca e di Turandot si dedicava a sontuose gozzoviglie con il suo sestetto di amici pittori, quasi tutti livornesi: Ferruccio Pagni, detto «mi strafotto», i fratelli Angiolino e Ludovico Tommasi, eppoi Lorenzo Viani, Francesco Fanelli e Plinio Nomellini.

In loro compagnia, il melanconico e compassato Giacomo si trasformava in un altro uomo: alzava il gomito, raccontava storie boccaccesche e partecipava a esibizioni di «arie» innescate dal basso pertugio, per la carburazione indotta dai pasti a base di pernici fritte, aringhe coi ravanelli e pasta con anguille. Gli amici lo coprivano anche nelle sue avventure galanti, che non di rado si compivano nei dintorni, tra i canneti del lago e la pineta.

Memorabili le battute di caccia alla folaga, ma soprattutto all’Antilisca, un animale sortito dalla fantasia dei bohémien che si tramandava fosse poco più grosso di una volpe, con la pelliccia d’oro e l’enorme coda ricciuta rivolta all’insù. Si narra che Puccini, con questa storia, facesse perdere delle ore anche a qualche amico credulone, desideroso d’incontrare la leggendaria bestia palustre.

Ma al «Club» si raccontavano tante altre storielle, quasi una nuova ogni sera. Qualcuno s’inventò, nientemeno, che le «fosse papiriane» realizzate dagli antichi romani per bonificare la pianura paludosa di Massaciuccoli, richiamassero alla memoria la coltivazione del papiro che si svolgeva sulle rive del lago come ai tempi degli egizi lungo il corso del Nilo. Una colossale bufala, però ben congegnata.

Elvira Bonturi, la compagna del Maestro poi divenuta legalmente sua moglie, era alquanto sospettosa del Club della Bohème. Temeva che gli amici esercitassero un’influenza negativa su Puccini, prosciugandone la vena artistica con le troppe dissipazioni. Autoritaria e possessiva, la donna giunse a vietargli di frequentare il cenacolo di scapigliati.

Ma il compositore non si diede per vinto: la notte, richiamato dagli irresistibili schiamazzi che giungevano dal vicino capanno di «Gambe di Merlo», se ne usciva di soppiatto affidandosi a uno stratagemma: incaricava un ragazzo di fargli da controfigura, battendo i tasti del pianoforte. Elvira, che di musica doveva intendersi poco, dal piano di sopra era rassicurata dai suoni che giungevano dal soggiorno della casa.

Un uomo come Puccini, intimamente così triste, d’altra parte, aveva la necessità fisica di assorbire i colori della vita. Quando i drammi che gli capitarono soffocarono la sua voglia di evadere, il Maestro entrò nella fase più cupa della propria esistenza. Avrebbe voluto correre al «Club», ma il capanno era stato incendiato, e del resto non poteva più permettersi il lusso di una notte da bohémien. Il diabete gli proibiva di mangiare polenta e selvaggina e la tirannica Elvira era diventata più un’infermiera che una moglie. Quel piccolo mondo sul lago non esisteva più. Al posto delle capanne dei pescatori e dei cacciatori erano sorti villini. La Bohème era rimasta sullo spartito.

Related posts

Shani, contro l’ostracismo culturale

Echi di un passato tuttora presente

Una nuova era per il rock alternativo